lunedì 26 ottobre 2015

Bambini competenti: quando la disostruzione salva la vita


Penso che ogni madre nutra paure profonde e diverse per ognuno dei suoi figli; alcune sono più forti, tanto da rasentare la fobia.

Ho un’amica, per esempio, che il terrore di perderlo tra la folla.
Io sono sempre stata terrorizzata dal soffocamento.
Ho partecipato a vari corsi di disostruzione e tengo appeso in lavanderia un poster con le manovre di primo soccorso.
Ci ho messo un sacco di tempo prima di dare la frutta tagliata a Pu, e per i primi mesi mi sono avvalsa dell’ausilio dell’apposita retina.
Alla fine ho dovuto cedere alle mie paure, ma tuttora, all’alba dei 5 anni, gli taglio uva e pomodorini, gli sminuzzo i wurstel, le caramelle dure sono ancora bandite e ad ogni festa di compleanno faccio incetta di palloncini.
Si può dire che l’argomento mi stia a cuore.
Per questo motivo oggi voglio diffondere un progetto bellissimo, nato dall’idea di Nadia Levato, una cara amica, romana d'adozione, istruttrice di manovre di disostruzione e scrittrice di fiabe per bambini.

domenica 25 ottobre 2015

Lettera alla mia amica che aspetta il primo figlio

Cara amica che aspetti il primo figlio,
Immagino che già da qualche mese starai sperimentando sulla tua pelle che, quando si tratta delle gravidanze altrui, la gente ha la tendenza a non farsi i fatti propri.
Così mi sono detta: perché non unirmi al coro dei consigli non richiesti?
Almeno ci sono già passata di recente, e quello che sto per dirti è frutto di esperienza esperita, te l’assicuro.


  1. Sei incinta, non ti ricapiterà molto spesso. Approfittane. Pretendi il posto a sedere in treno, in autobus, in posta. Ricordati che alla Asl hai la priorità: sei incinta. Declamalo a voce alta e salta la coda, sfoggiando la migliore delle facce di marmo e un sorrisetto verso le vecchiette che sono lì dalle 6 del mattino a tenere il posto e che ti lanceranno strali d’odio. E fallo anche al supermercato. La pancia ti dà diritto alla precedenza alla cassa, anche e soprattutto su quelli che arrivano con un pacco di pasta e ti guardano pietosi “ho solo questo, posso passare?” No. Non può. Sei incinta. La precedenza ce l’hai TU

martedì 20 ottobre 2015

90's are back!


Domani è il “Back to future” day; il giorno in cui Marty McFly, insieme al mitico Doc, piomba nel futuro, nel secondo episodio della saga.In questi giorni invece sto sperimentando un ritorno al passato, soprattutto per quanto riguarda la moda.
Gli anni 90 sono tornati.
Impietosi.
Li ho visti a Parigi; anche se sono stata cazziata, perché chi si veste anni ’90 non è parigino D.O.C. Così come il famoso fermacoda di SATC non è un must di New York, ma di Brooklyn.
L’altro giorno mi sono trovata circondata da uno sciame di ragazzine in maglioni extra large con le trecce e fuseax, e mi sono sentita come Marty McFly. Ho pensato ad un buco spazio/temporale, e invece no.
Le mode tornano.
I fuseax anche.
Sì, i fuseaux.
Perché ai miei tempi si chiamavano così, e avevano la staffa sotto, e c’erano vari gradi di perversione, dal vellutino al pantacollant nero lucido, rigurgito degli anni ’80, che si usava soprattutto per andare a danza.

giovedì 15 ottobre 2015

essere mamma, sentirsi mamma, fare la mamma

Scopro che oggi è la giornata mondiale del lutto perinatale.

L’ho scoperto per caso, grazie ad un’altra mamma blogger che trovate su professionemammablog, che quest’esperienza l’ha vissuta e raccontata meravigliosamente.
Si parla poco di lutto perinatale, forse perché l’aborto entro le 12 settimane è percepito come qualcosa di naturale mentre, al contrario, vedere morire un figlio prima ancora che nasca, è qualcosa che va talmente contro natura che si preferisce rimuovere il pensiero.
Da tanto tempo mi interrogo su questo aspetto della maternità: desiderare un figlio, perderlo, trovare la forza di cercarlo ancora e ancora fino ad arrivare all’obbiettivo. E oggi mi sembra il giorno giusto per esternare le mie riflessioni.
Ogni tanto guardo Pu, il mio Pu perfetto, i suoi occhi che ridono, il fisico possente da piccolo uomo, i baci dati senza motivo, il suo modo di camminare, i piedoni che mi sembrano ancora più grossi quando corrono, gli abbracci da lasciare senza fiato, l’entusiasmo con cui affronta la vita, la pelle del colore perfetto, i riccetti in testa, l’amore che mi esplode dentro quando meno me l’aspetto, anche quando sono talmente incazzata che lo strozzerei.
E a volte mi chiedo cos’ho fatto per meritarmi tutta questa gioia e questa perfezione, ricevute senza chiederlo, senza nemmeno desiderarlo a fondo.

mercoledì 14 ottobre 2015

Se Parigi avesse lu mere, sarebbe una piccola Genova


Per chi ancora non l’avesse capito, sono stata qualche giorno a Parigi, insieme alla fida Magenta.
Un ritorno alle origini, dato che l’ultima volta ci siamo state, sempre insieme, ventenni e fresche di laurea.
Niente di epocale, direte voi, ma cercate di capire: due mamme che abbandonano i pargoli per darsi alla pazza gioia tre giorni nella Ville Lumière non è cosa che capiti tutti giorni.
Parigi ci ha accolto con l’ormai nota cortesia dei parigini, e questo già mi ha fatto sentire a casa.
Io non amo fare generalizzazioni, ma da genovese che fa della scortesia verso i turisti un marchio di fabbrica e quasi un vanto, non posso che compiacermi nell’aver trovato un popolo più antipatico di noi.
Il turista medio, arrivando a Parigi, resta scioccato dalla spocchia che rasenta spesso la maleducazione
Niente di tutto questo mi ha minimamente spostato: il mio standard di accoglienza è piuttosto basso. Del resto sono abituata a locali che chiudono alle otto di sera, e a camerieri che alle 19.30 cominciano a girare le sedie sui tavoli e a passare lo straccio per terra nonostante tu stia sorseggiando la seconda birra in compagnia.
A Roma sono arrivata ad abbracciare una cameriera che è venuta a scusarsi perché non avevano più il vino che avevo ordinato e per farsi perdonare me ne ha servito uno più costoso allo stesso prezzo.

martedì 6 ottobre 2015

Riflessioni sparse sull'amicizia tra donne

Sostengo da sempre che il culo che non ho mai avuto in amore io ce l’ho con le amiche.

Se le mie storie sbagliate ormai non si contano, le amiche si contano eccome, sulle proverbiali dita di una mano; e nel mio caso di mani me ne servono almeno due, e forse anche un piede.
Ho tante amiche, sfatando il mito che vuole che le amicizie, quelle vere, siano poche e scelte.
Così, a prima botta posso contare almeno una dozzina di persone che chiamo amiche, nel senso pieno, a 360 gradi del termine.
Ognuna con caratteristiche diverse, che ho voglia di incontrare a seconda dei mood o delle cose da fare.
Un po’ come gli psicanalisti di Stanford in Sex and The City: una per quando voglio farmi coccolare, una per quando voglio farmi maltrattare, una che sappia dirmi la verità in faccia brutalmente, una per ammazzarsi dalle risate, una per i concerti di Carmen Consoli e una per quello di Elio e le Storie Tese e Daniele Silvestri; ci sono le amiche da cinema e da teatro; quelle da aperitivo fashion o da birretta sul mare.

venerdì 2 ottobre 2015

A mia nonna

Di mia nonna ricordo le mani nodose, che si abbattevano inclementi sulla mia bocca ogni volta che rispondevo male.

E si infilavano ruvide e asciutte tra collo e canottiera, per sentire se ero sudata.
Aveva questa fobia mia nonna, e io giocavo a nascondino coi miei amici col terrore di vederla sbucare all’improvviso, e una volta constatato il livello di inzuppamento della canottiera della salute che mi costringeva ad indossare anche in pieno luglio, agguantarmi per un braccio e trascinarmi fino a casa, dove mi cambiava e mi avvolgeva in una nuvola di borotalco.
Le stesse mani che avvolgevano con perizia un tortellino le due volte l’anno che impastava, sapevano stringere con forza le mani del medico durante la visita per ottenere l’accompagnamento, come a dimostrare che lei non poteva e non voleva invecchiare.
Passavamo insieme intere estati nel suo paese natale, immerso nella canicola della campagna vercellese.
Le sere in giro in bicicletta, cento volte lo stesso giro, passando davanti a lei che spettegolava con le sue amiche su una panchina, tenendomi d’occhio come solo le comari di paese sanno fare.
Pedalare era l’unico modo di non farsi mangiare dalle zanzare che abitavano in sciami quella pianura divisa in rettangoli perfetti dalle risaie, che durante la primavera raddoppiavano il mondo in specchi d’acqua immobili, restituendo immagini perfette che mio padre amava fotografare, giocando ad indovinare quale sarebbe stato il verso esatto della diapositiva.
A settembre si trebbiava, e l’odore del bilon, la pellicina del riso, bruciata, è uno degli odori della mia infanzia.
Andavamo a pesca di rane, che lei uccideva con crudeltà per preparare deliziose frittate, che solo a pensarci ora, da quasi vegetariana, svengo al pensiero.
Dopo pranzo andavo sempre al bar a comprarle un fragolino, tenendomi il resto in monetine come un piccolo tesoro, che mi dava accesso a rotelle di liquirizia, ghiaccioli, partite a calcio balilla e due canzoni nel juke box.
La notte dormivamo nello stesso letto, la stanza intrisa dell’odore degli zampironi; regolarmente nel pieno del sonno mi svegliava per chiedermi l’ora, avendo perso il rintocco del campanile, che all’epoca suonava ogni quarto d’ora.
Al mare passava ore a riempire bottiglie di plastica vuote di pinoli, che in inverno liberava dal guscio dopo pranzo; il clic dello schiaccianoci accompagnava i miei pomeriggi chini sulle versioni di latino.
In inverno restava con noi durante il giorno, ci accompagnava a scuola, e attendeva l’ora di pranzo in cui tutti rincasavamo.
L’ultimo ad arrivare era mio padre, e una volta preparato il caffè, spesso salato anziché zuccherato, esordiva col solito “io vado a casa mia”, difendendo con le unghie e coi denti la propria indipendenza e la propria privacy.
Aveva occhi blu, che hanno sprizzato gioia di vivere fino all’ultimo dei suoi giorni.
Gli stessi occhi che ha ereditato mia madre ma, con suo grande disappunto, nessuno di noi figli e nipoti.
Mi aspetto di vedere spuntare fuori questo gene da qualche pronipote, magari mescolato a quelli africani di Pu, che meraviglia.
Ogni tanto si soffermava sui ricordi di guerra, il promesso sposo disperso per 4 anni, lei che si reca da una cartomante per sapere se è ancora vivo, lui che torna a casa, 40 chili con le scarpe a pezzi, tre giorni dopo la morte della madre.
E le compaesane che andavano coi tedeschi rasate a zero dopo la liberazione, marchiate per sempre come traditrici.
Non parlava volentieri di quel periodo, eppure ogni tanto glielo chiedevo io, insieme alle storie di famiglia, le cugine Giuanina e Selvaggia che ci facevano tanto ridere, e la sua gemella nata morta.
Era una professionista delle polpette, che faceva con l’avanzo di qualsiasi cosa, e del fritto, perché si sa, da buona piemontese, fritta è buona pure una suola da scarpe.
Passava pomeriggi interi a sferruzzare a maglia, e durante l’adolescenza ha assecondato ogni mia voglia in tal senso, dalle borse, agli sciarponi, fino a i manicotti da cui spuntava solo il pollice che facevano tanto alternative-underground.
Creava pezzi unici che tutte le mie amiche mi invidiavano, compresi berretti stilosi, che confezionava utilizzando quattro ferri.
Inutile dirvi che io non ho ereditato nemmeno un decimo di quel talento.
Mi limitavo ad aiutarla a avvolgere la lana che riutilizzava disfacendo vecchi maglioni, su un bizzarro attrezzo di legno coi bracci pieghevoli.
Ne uscivano ampi gomitoli che lei lavava e stendeva nella vasca da bagno, prima di trasformare un maglione in un mini abito.
Negli ultimi anni della vecchiaia il forte abbassamento della vista era stata una delle sue più grosse cause di sofferenza; aveva la terza elementare ma leggeva il giornale ogni giorno ed era sempre sul pezzo, dal gossip alla politica estera.
Mi mancano quelle mani nodose che a stento riuscivano a tenere in braccio mio figlio neonato.
E che mi strofinavano la pancia quand’ero malata al ritmo di una nenia in piemontese che sembrava il canto rituale di uno sciamano “zan zan zan, al malaviu il port al san” (non so scrivere il piemontese, se qualche vercellese vuole correggermi gliene sarei grata).
E il sapore unico del suo sugo, che mangiavo condendo un uovo fritto.
A volte mi pento dei mancati abbracci che non ho saputo darle quando forse ne aveva più bisogno.
E da quando è morta sogno sempre, ciclicamente che sia tornata in vita, nonostante la sua morte sia stata un immenso e colpevole sollievo per tutti. Lei in primis.
Il peso dei vecchi è un peso difficile da sopportare, e ancora più difficile da confessare.
Pu la ricorda appena, la nonna vecchina che la faceva sempre giocare.
Io ho voluto dedicarle il mio blog, perché è anche grazie a lei se ho cominciato a scrivere, appuntandomi la storia della sua vita
Allegro era il suo cognome, nomen omen, dicevano i latini.
Eles il suo nome, un nome raro e inusuale, che mi inorgogliva, perché nessuno aveva una nonna con un nome così.
Il mio carattere solare lo devo in parte anche a lei, sempre in piedi di fronte alle avversità della vita, a cui si è ancorata con le unghie e coi denti fino all’ultimo giorno, se pensate che è andata a morire nel suo letto con le sue gambe.
Il letto dove ora dorme Pu, e questa continuità mi da pace verso il ciclo ineluttabile della vita.