mercoledì 15 giugno 2016

Je suis Orlando

Liguria Pride 2016Siamo ancora tutti sconvolti dall’attentato di Orlando.

Ma poco propensi a sbandierare i nostri "Je suis", come successe invece per altri attacchi terroristici.

Il maschio italiano non vuole scalfire la propria virilità, non sia mai che qualcuno dubiti che gli piaccia la figa, ma non si fa scrupoli a scalfire la propria umanità.

Più di tutto a me ha sconvolto il silenzio mediatico - ecco magari proprio silenzio no: chiamiamolo bisbiglio sommesso, come in chiesa - invece dei titoli urlati dopo gli attentati di Parigi o Bruxelles.

E i commenti dal basso, di chi sembra vivere in un altro mondo, in cui la comunità LGBT è considerata una specie di ghetto con cui è meglio non mescolarsi.

L’opinione più diffusa è in effetti che i gay si ghettizzano da soli.

Fanno i gay pride mascherati da pagliacci e frequentano locali per gay contribuendo da soli alla propria discriminazione.

A me sembra lapalissiano, ma provo a spiegarlo ancora una volta.

I muri non si alzano da soli.

E i primi a ghettizzarli siamo proprio noi, con la nostra presunzione a considerarci giusti, normali, virtuosi, seri.

E credo non ci voglia una mente illuminata a capire che frequentare certi locali metta al riparo dal maschio alfa di turno che, disturbato dalla visione di due uomini che si baciano – ti piacerebbe mica provare amore? – preferisce sfogare la propria inadeguatezza sferrando un pugno nei denti ai provocatori di desideri impuri.

Oppure impugnare un mitra e farne fuori cinquanta in una volta sola.

Io credo che noi, dall’alto del nostro pulpito sicuro e normale, che ci siamo costruiti con impegno, tremando al pensiero che possa vacillare, dovremmo imparare a metterci un po’ di più nei panni di questi ragazzi e ragazze.

Che non sono fatti di strass e piume di struzzo, come ci piace credere, ma di dolore, di sofferenza, di sensi di colpa, tutti sentimenti causati dal nostro perbenismo e dalla nostra morale del cazzo.

Vi siete mai immaginati come vi sentireste a non poter camminare mano nella mano con vostra moglie o vostro marito?

O a essere costretti a vedervi di nascosto, a confessare il vostro amore solo a pochi amici intimi per non essere vittime di bullismo e violenze, a fare di tutto perché il vostro datore di lavoro non venga a saperlo per non rischiare il licenziamento, a nasconderlo ai vostri famigliari per non essere ripudiati o considerati la vergogna di famiglia?

Non dimenticherò mai lo sguardo di un amico, incrociato il 23 gennaio alla manifestazione "Svegliati Italia" in sostegno delle unioni civili.

Era un ragazzo con cui studiavo all’università, mi ha aiutato moltissimo con la tesi e ci siamo persi di vista per tanti anni.

Non sapevo fosse gay e anzi, sono certa che avesse fatto di tutto per tenerlo nascosto.

Era in prima fila, a fianco del suo compagno, a sorreggere lo striscione e le sveglie simboliche con cui volevamo svegliare gli italiani, tutti insieme.

L’ho visto e l’ho salutato con un sorrisone, fiera, a dire "Ehi! Siamo tutti qui per la stessa ragione ed è meraviglioso".

Il disagio che ho letto nei suoi occhi è stato qualcosa di devastante. Ci ha messo un secondo di troppo a rispondere al mio sorriso. Come se tenere quello striscione in mano fosse ancora una colpa, come se in quella prima fila ci fosse ancora il ragazzo di vent’anni che teneva nascosta la propria omosessualità, per timore di essere giudicato, invece dello splendido uomo di quarant’anni, consapevole e fiero del proprio modo di essere, tanto da metterci la faccia, in prima fila; un uomo capace di lottare per se stesso e per tutti i ragazzi di dieci, quindici, vent’anni che sono quello che era lui, perché non debbano più nascondersi né avere paura di baciare, amare, scopare con chi meglio credono, alla luce del sole.

Credo che Genova questo sabato abbia una responsabilità enorme.

Sarà una delle città italiane che accoglieranno il Pride dopo i fatti di Orlando e dobbiamo essere tantissimi, per dimostrare di non avere paura, e soprattutto di non essere divisi in ghetti, fazioni, partiti, ma insieme per lo stesso obiettivo.

Lasciare un mondo giusto ai nostri figli, invece di chiuderci in casa vivendo col terrore che vengano ammazzati a colpi di pistola nel bagno di una discoteca perché gay, perché hanno la pelle di un altro colore o perché hanno deciso di lasciare il proprio compagno.

Perché la violenza e la discriminazione passano tutte da lì, dallo stesso canale di ignoranza, pregiudizio e schemi sociali duri a morire.

E sono sicura che Genova, con la sua storia di lotta e Resistenza, sarà all’altezza dell’evento.

Sarà una festa per le famiglie, ancora una volta, per tutte le famiglie.

Quindi venite per favore, portate i vostri bambini, i nipoti, i figli degli amici.

Portate i vostri genitori e i vostri colleghi che fanno battute omofobe, perché provino ad aprire gli occhi.

Io avevo deciso di parteciparvi già da qualche mese, e oggi più che mai sono felice di essere presente e portare con me mio figlio, che a cinque anni può iniziare ad imparare il valore della diversità, intesa come unicità che brilla, all’opposto dell’omologazione che appiattisce.

E a tutti quelli che mi chiedono: "Ma come? Tuo figlio al Pride? Ma non hai paura che diventi…?"

"Una persona migliore dici? Beh, sì. Sono pronta a prendermi questo rischio."



lunedì 6 giugno 2016

18 anni di Sex and the City

carrie sigla Sex and the City che diventa maggiorenne, è il segnale definitivo che sto invecchiando.
Soprattutto se penso che, all’epoca della serie, le protagoniste erano più giovani di me adesso.
Su SATC si è detto di tutto e si è scritto tutto, e non aggiungerò altre parole sul tema.
Ma oggi devo celebrare cosa è stato SATC per me.
Sogno e rifugio dalle mie storie sbagliate, e vita che diventa reale, quando trovi tre amiche che più SATC di così si muore.
Carrie mi ha insegnato che si può vivere a New York scrivendo una rubrichetta da far impallidire il mio blog e camparci.
Camparci tanto da permettersi un appartamento – che solo nel film si scopre essere enorme – in una zona fighissima, scarpe da 500$ al paio (chi non ricorda i calcoli fatti da Miranda quando Carrie deve comprarsi casa da Aiden? 40.000$ in scarpe!) e vestiti spettacolari.
E che tutto questo basta ad accalappiare il più sexy e ricco esperto di finanza della Grande Mela.
Non una, ma una dozzina di volte.
E che arrivate a trentott’anni può capitarti un Alexander Petrovsky tra capo e collo che ti porta con sé a Parigi. E ti ci lascia.

domenica 29 maggio 2016

A proposito di figli maschi...


Volevo un figlio maschio e ho avuto un figlio maschio.


Nessuna  velleità edipica, non volevo un principe azzurro in miniatura (per la serie: l’uomo della mia vita l’ho fatto io… che la terra si apra sotto i miei piedi e mi inghiotta se mi sentite affermare una roba simile), né la praticità del pisello per fare pipì in emergenza.
La verità è che non so fare le treccine, e l’idea di una figlia femmina coi capelli afro da acconciare, mi mandava nel panico.
E a dire il vero mi spaventavano anche i vestitini tutti fiocchetti e inserti in pelle, le borsette, le Barbie, lo smalto fuxia, le Lelly Kelly, il primo rossetto, le minigonne, mandarla in giro di sera da sola, la mancanza di pari opportunità sul lavoro, le mestruazioni, la prima volta, la ceretta, l’anoressia, la cellulite, gli anticoncezionali, le battaglie femministe, la dieta, l’indipendenza economica, i tacchi, i “cos’hai? Ma ti devono venire?”, partorire, conciliare famiglia e lavoro, i ricatti morali, il “trovati una casa vicino a me così quando sono vecchia mi accudisci” e la menopausa.

Diciamo la verità: i maschi sono più semplici.
E hanno vita più semplice.
Questo non significa però che sia più semplice educarli; specialmente in una società dove, solo per il fatto di essere uomo, hai la strada spianata.

lunedì 23 maggio 2016

La solitudine delle donne


depressione post-partumNon ho sofferto di depressione post partum; la mia era piuttosto una malsana euforia post-partum, che solo dopo ho saputo spiegare con positivi sbalzi ormonali che mi facevano amare quella creaturina sconosciuta anziché avere voglia di gettarla nella lavatrice.

Non ho mai conosciuto nemmeno la depressione, né altre malattie di tipo psichico o psicologico, se non qualche sporadico attacco di panico, risoltosi da solo.

Forse per questo in passato sono stata piuttosto critica verso chi invece, intorno a me, lamentava sintomi tipici di un principio, o di una conclamata depressione.

Mi ci è voluto tempo ed esperienza per capire che anche quelle dell’anima sono malattie, da curare esattamente come un mal di gola o un’appendicite.

E invece sono ancora considerate un tabù nella nostra società, come se mostrare il dolore che ci portiamo dentro fosse sinonimo di debolezza o peggio, un marchio a fuoco, "il matto del villaggio".

Non è un caso se in genere sono le donne a soffrire maggiormente di depressione rispetto agli uomini, ivi compresa la depressione post partum.

giovedì 19 maggio 2016

Mammacheblog 2016

Una settimana fa ero al mio primo Mammacheblog.
Un’esperienza che qualunque blogger dovrebbe fare, almeno una volta.

Per sfruttare un'occasione unica di formazione e condivisione; ma soprattutto per rendersi conto dei propri limiti e per far vacillare qualche certezza.

E visto che mettermi in gioco è una delle mie attività preferite, direi che ero la persona giusta nel posto giusto.
 
Per quanto mi riguarda è stata una vera e propria rivoluzione di pensiero.
 
Sto ancora elaborando le informazioni ricevute – tantissime in poco tempo purtroppo, perché al pomeriggio ho dovuto fuggire per rientrare a Genova - e tentare di farne buon uso.
 
Sono successe diverse cose belle.

giovedì 12 maggio 2016

un bacio

Oggi vi racconto la storia di un bacio.

Un bacio intravisto da lontano, senza capire chi si sta scambiando effusioni.

Un bacio dato di sfuggita, col timore di farsi vedere.

Un bacio rubato in mezzo alla strada, che provoca una reazione di terrore in chi lo riceve.

Un bacio sfrontato, di chi non ha nulla da nascondere.

Un bacio spudorato, di chi vuole dimostrare che è normale.

Un bacio desiderato, e ti fa sentire inadeguato.

Un bacio che è piaciuto da morire, e ti sprofondare nei sensi di colpa.

Un bacio fugace, prima di entrare a scuola o al lavoro.

Un bacio nascosto, perché questa vergogna non può cadere sulla nostra famiglia.

Un bacio dato con passione, le labbra che si mordono, le lingue che si intrecciano.

Un bacio che genera sdegno in chi lo vede.

Un bacio da "cercatevi una stanza!"

Un bacio sulle labbra, per augurare buona giornata.

Un bacio che è una promessa d’amore.

Un bacio con le mani tremanti per l’emozione.

Un bacio che incuriosisce mio figlio: "Mamma ma cosa fanno? Sono due uomini!"

Un bacio che legittima una bestia ad aggredirti, verbalmente e fisicamente.

Un bacio che "queste cose fatevele a casa vostra, qui ci sono dei bambini!"

Un bacio dopo una dichiarazione d’amore, in ginocchio, nemmeno il tempo di rialzarsi perché le gambe cedono per l’emozione.

Un bacio davanti alla persone che amiamo, senza vergogna.

Un bacio per festeggiare un piccolo passo nel lungo cammino dei diritti.

Un bacio che presto si potrà dare di fronte ad una fascia tricolore, per urlare al mondo che è finito il tempo di vivere nascosti.

Un bacio che vale più di qualsiasi outing.

Un bacio dopo un brindisi, al pensiero che finalmente sarà possibile sposarsi.

Un bacio che attira qualche insulto, e tante reazioni d’amore.

Un bacio in fronte, per dare conforto a tanti ragazzi e a tante famiglie.

Un bacio a tua madre, che aspettava con te questo momento da tanti anni.

Ed uno agli Adinolfi, alle Binetti, ai Salvini e anche a qualche grillino: sulle chiappe, le mie, in stile Bart Simpson, alla facciazza vostra!

lunedì 9 maggio 2016

adotta1 blogger perché...

...amo lavorare da sola.
Amo TROPPO lavorare da sola.
Da dieci anni ormai sono membro di un'associazione culturale, in cui ho imparato il valore del lavoro di squadra.
Ma per troppo tempo mi è mancato il mio spazio.
Prendere le mie responsabilità.
Sbagliare da sola.
Prendere delle belle randellate nei denti.
Avere la soddisfazione di dire "questo l'ho fatto io, da sola!"

Così è nato il mio blog, il mio progetto, MIO come diceva mio figlio di ogni oggetto, dal giocattolo al telecomando, quando aveva due anni.

Dopo quasi tre anni di lavoro in solitaria però, ho sentito la necessità di tornare agli albori: lavorare in squadra.

Perché da soli è più difficile, ci vuole molta disciplina, è noioso e non ti permette di confrontarti con nessuno. Che può essere un bene - si lavora più spediti, non ci sono discussioni, le decisioni le prendo io, PUNTO - ma ha tanti lati negativi. Appunto.

Per esempio: con chi gioire dei traguardi raggiunti? Chi ti corregge i refusi? Chi ti dice "Sara, a 'sto giro hai proprio scritto una stronzata?"

E così mi sono imbattuta in "Adotta1blogger".

Che è una rete. E a me le reti sono sempre piaciute, perché per prima cosa mi ispirano salvezza, un luogo sicuro, che ti accoglie dopo voli spericolati, che ti permette di prendere dei rischi e di cadere senza farti male.

Sto ancora facendo fatica ad usare come si deve questo network, mi manca il tempo di leggere, recensire, affezionarmi.
Ma qualche amore è già nato, e spero che presto si trasformi in collaborazione.

Perché lavorare da soli è la vertigine della libertà, ma senza un gregario difficilmente si raggiungono le vette più alte.