venerdì 29 aprile 2016

A piedi nudi

I. Mi sveglio perché sento freddo ai piedi. Questa coperta è troppo corta. E ruvida.

In bocca sento un gusto metallico, ho gli occhi appiccicosi, la testa pesante.

Lo so cosa vuol dire: i bastardi mi hanno di nuovo imbottita di medicine.

Ho dormito un sonno pesante, senza sogni, fatto di un buio denso, come la cioccolata che amavo spalmare sul pane da bambina, e abitato dai miei demoni.

Mi hanno legata di nuovo al letto, e questo significa solo una cosa: lui arriverà di nuovo tra poco, e io non desidero altro che morire.

II. Qui ci sono arrivata la prima volta che avevo 17 anni.

Quelle come me non piacciono a nessuno.

Me ne stavo per conto mio, parlavo ai gatti, contavo le formiche che salivano in fila sul muro, intrecciavo margherite nei capelli.

Amavo disegnare, passeggiare nella natura; solo la natura metteva a tacere i miei demoni, li ammansiva, li coccolava. Forse anche loro si sentivano a casa non so.

Mi portavo sempre appresso un taccuino e la matita per disegnare le forme che attiravano la mia attenzione: il profilo di una pietra, una nuvola nel cielo, il prato coi suoi fiori.

A Natale la mamma mi aveva regalato gli acquarelli, e da allora non ho mai smesso di dipingere.

Ho cominciato con piccole tele che mamma teneva nascoste in camera mia, fatte di colori vividi e delle parole a caratteri maiuscoli che i miei demoni mi suggerivano all’orecchio.

Ero una bambina taciturna, ma buona. Aiutavo la mamma nelle faccende di casa e ubbidivo sempre. Ma amavo troppo camminare, non stare ferma mai, sentirmi un tutt’uno con la terra, l’acqua, l’erba il sole.

Una volta mi sono persa nel bosco, ci ho passato tutta la notte. Sentivo i rumori, gli animali mi sussurravano di non avere paura, e allora mi sono accoccolata contro il tronco di un albero e mi sono addormentata.

Alla mattina il Pepe è venuto a cercarmi coi suoi cani da caccia, mamma si era consumata per la paura e nel rivedermi mi ha dato due schiaffi anziché abbracciarmi, tanto si era preoccupata.

Io ho provato a spiegarle che non avevo corso nessun pericolo, che la natura era mia amica, ma lei si è fatta il segno della croce come se fosse il Diavolo in persona a parlare.

A 13 anni mi sono sviluppata di botto, sono cresciuta venti centimetri in un’estate.

Ero la più alta della mia classe.

Quando ci andavo, a scuola.

Dicevano che disturbavo, non riuscivo a stare ferma nel banco, facevo domande bizzarre che provocavano risolini fra le mie compagne e risposte imbarazzate delle maestre.

Quando mi sono venute le mestruazioni l’ho detto in classe ad alta voce; la mamma mi aveva detto di non dirlo a nessuno, anche se era una cosa che succedeva a tutte le donne, la nostra croce, l’aveva chiamata.

Allora ho chiesto alla maestra se anche lei le aveva, le mestruazioni, e lei è diventata tutta rossa in viso e mi ha mandata dalla preside, intimando alle mie compagne di tacere, mentre alle mie spalle sentivo risate soffocate e mormorii, dev’essere impazzita… non è mai stata normale ma questo…
Da quel giorno la mamma ha smesso di mandarmi a scuola, la vergogna era troppa, troppi i pettegolezzi.

Io non ho mai capito cos’ho fatto di sbagliato, tutto quello che ho sempre voluto era vivere a contatto con la natura e anche quello che ho chiesto alla maestra riguarda la natura, la nostra.

A volte mi sembrava come se le persone si vergognassero delle cose sbagliate.

Come quella volta che la mamma mi portò a confessarmi dal prete, perché diceva che avevo troppi demoni nella testa, e che solo con l’aiuto di Gesù sarebbero usciti fuori.

Il prete le chiese di lasciarci soli, e mi infilò le mani sotto la gonna e io non sapevo che fare ma lui non si vergognava affatto di farlo anzi, mi sembrava proprio contento, anche se poi quando tutto finì mi disse di non dirlo a nessuno, che era il nostro piccolo segreto.

Io però mi vergognavo e non capivo se era una cosa giusta oppure sbagliata, ma tutte le volte che la mamma mi riportava da lui non potevo oppormi e sicuramente era una cosa giusta se la faceva uno che predicava la parola di Gesù.

Eppure i demoni dopo quegli incontri tornavano più arrabbiati che mai.

III. Solo dopo anni, grazie a Mario, ho capito che quella era la cosa più sbagliata di tutte.

Mario voleva fare le stesse cose ma lui era dolce, mi voleva bene, mi proteggeva, mi portava nel bosco a camminare sui prati a piedi nudi come piaceva a me. Faceva tutto per farmi stare bene ed era felice quando io ridevo.

Diceva che voleva sposarmi e fare tanti bambini, che per lui non ero matta come tutti pensavano, che ero la sua ninfa del bosco, che lui mi avrebbe protetta sempre. Ma non è stato così.

Un giorno le mestruazioni hanno smesso di venirmi, e io non lo sapevo perché.

Quando la pancia ha cominciato ad ingrossarsi Mario invece mi ha spiegato che aspettavo un bambino, era felicissimo, è corso a casa dalla mamma tenendomi per mano, rideva, le guance rosse al colmo della gioia.

Entrò in casa come un tornado dicendole che mi sposava, che saremmo andati a vivere nella sua casa, insieme ai suoi animali e alle sue piante che ci avrebbero dato da vivere.

La mamma non capiva che cosa le stesse dicendo, ma poi ci arrivò e intuì il mio ventre ingrossato dietro il cappotto verde che mi aveva regalato per gli inverni rigidi delle montagne.

Il suo volto trasfigurò, mi strappò via dalle braccia di Mario e cominciò a picchiarmi.

Mario era come una statua, ferma ferma! Urlò ad un certo punto, ma non riusciva a fermarla e poi lei si accanì come una furia anche su di lui e riuscì infine a spingerlo fuori di casa.

La stessa casa che da quel giorno divenne la mia prigione.

I vicini venivano a vedere se stavo bene, si preoccupavano di non vedermi più in giro, si preoccupavano per me, la matta del paese, che andava in giro a piedi nudi anche a novembre, avvolta nel suo cappotto verde, trascinandosi sempre appresso un sacchetto pieno di cianfrusaglie e i colori per dipingere.

La notte in cui nacque Teresina mia credetti di morire, e poi di tornare alla vita.

Mamma mi aiutò, mi mise uno straccio tra i denti e mi ordinò di non urlare per nessun motivo al mondo, ché nessuno doveva accorgersi di cosa stesse succedendo.

Nemmeno Teresina urlò quando scivolò fuori dal mio corpo, e la mamma non me la fece nemmeno vedere.

Intuii solo una manina perfetta e paffuta, cinque dita che non ebbero nemmeno il tempo di stringersi intorno alle mie.

IV. Fu lì, che impazzii davvero.

I demoni ora torturavano Teresina mia, affollavano la mia testa, mi impedivano di dormire e di mangiare.

Persi i capelli e i pochi chili della gravidanza.

La mamma chiamò il dottore a casa, e anche il prete.

Che decisero di portarmi qui.

Ci rimasi quasi due anni.

Insieme a tante donne come me, che avevano la colpa di non andare d’accordo con la suocera, o soffrivano di sbalzi d’umore e malinconia.

Ci lasciavano morire d’inedia, di fame, mangiate dal nostro stesso orrore, che alimentavamo nella solitudine della nostra malattia, attingendo a tutte le torture che ci infliggevano quotidianamente.

Il prete tornava ogni settimana.

Faceva il giro delle sue predilette, che erano sempre le più giovani, le violentava con l’aiuto degli infermieri, che le tenevano ferme a turno.

I primi tempi toccava anche a me.

Poi per lui sono diventata troppo vecchia. Ma non per gli altri.

Quando eravamo troppo agitate ci calmavano con l’elettroshock.

Le prime volte ero terrorizzata, non mi facevano nemmeno l’anestesia, ma ci si abitua a tutto.

Quando Mario è venuto a saperlo mi ha aiutata a scappare la prima volta.

Ha corrotto una guardia, con tanti soldi e formaggi e salami dei suoi; siamo usciti di notte, io tremavo nel cappotto verde, sentivo le pietre sotto le piante dei piedi nudi, abituati ormai solo al pavimento freddo della mia stanza.

Mario mi ha portata a casa, mi ha lavata come una bambina, e ha baciato ogni cicatrice, ogni bruciatura, ogni dolore.

Si è messo a piangere e mormorava mai più, mai più, mai più…
Ma io chiusa in casa non resistevo; infilavo il cappotto verde e correvo fuori nel bosco, insieme ai miei gatti, cantavo, mi bagnavo nuda nel ruscello e nuda correvo a casa, felice, attraversando il paese, soffermandomi quando trovavo una parete adatta per riempirla di colore e forme e facce con gli occhi enormi e spalancati dei miei demoni.

Ho dipinto tutte le case del paese, e tutte le stanze della casa di Mario.

C’era sempre qualcuno però, che alla fine avvisava i gendarmi. Che venivano a prendermi per rinchiudermi un’altra volta.

E’ andata avanti così per dieci anni.

Mario ce l’ha messa tutta poverino, ma la mia anima addolorata non è riuscita a domarla nemmeno lui.

Mia madre mi ha abbandonata lungo il cammino, non so se sia stato peggio per lei il dolore oppure la vergogna per questa figlia matta, che viveva nel suo mondo fatto di fiori e piccoli animali.

E’ morta da due anni. Al suo funerale non mi hanno lasciata andare.


V. Sono qui legata, e aspetto che arrivi. So che se non mi ribello durerà poco e poi potrò tornare a giocare coi miei demoni.

VI. Ho smesso di credere in Dio quando mi è stata strappata via Teresina mia.

Nel Dio quello buono intendo; penso che Dio sia crudele e che ci metta continuamente alla prova. Che ogni tanto scelga qualcuno, e si diverta ad osservarlo mentre se ne inventa sempre una nuova per rendergli la vita impossibile.

Ogni tanto lo dipingo, così come me lo immagino. Con le mani grandi e la bocca in una smorfia di risata grassa, mentre vede come ci affanniamo quaggiù. E lui che ci butta in mezzo al passo degli ostacoli sempre più difficili, per fare vacillare la nostra fede. Con me ci è riuscito. Ma alla fine ho capito che anche la crudeltà e la violenza fanno parte della natura umana.

E se Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza, non può che essere brutale e spietato.

VII. Cerco di mangiare il riso con la mano buona, è insipido e scotto, ma oggi ho fame, mangerei anche le gambe del tavolo. Lo diceva sempre la mamma "tu ti mangeresti anche le gambe del tavolo".

Mentre aspetto che mi levino il piatto da davanti e mi conducano di nuovo nella mia stanza, sento una mano posarsi su una spalla.

E’ un tocco lieve, diverso, che emana un’umanità che avevo dimenticato e quasi mi fa piangere.

Alzo gli occhi e vedo una ragazza, anzi no una donna. Avrà trent’anni, forse meno, ma il camice le da’ un’aria severa, che la fa apparire più grande.

Porta i capelli in una bella treccia, penso che mi piacerebbe metterci i miei fiori lì in mezzo, e prenderle la mano, e portarla con me sul prato a camminare.

Mi parla, e io sento solo il suono di quelle parole, che le escono dalla bocca come le nuvolette di fumo in inverno e io le respiro e mi entrano nella testa e mi appannano la vista.

No aspetta, quelle sono le lacrime perché ora l’ho capito cosa mi sta dicendo, ma sono io che non riesco più a parlare. E invece delle parole esce acqua salata dagli occhi.

Dice che ci ha messo tanto tempo per trovarmi ma ce l’ha fatta finalmente. E non mi lascerà più.


VIII. Teresina mia mi ha portata in questo posto bellissimo.

Prima mi ha fatta curare come si deve, così ha detto lei.

Ha denunciato la direttrice del manicomio dove stavo prima, dice che con la nuova legge chiuderanno tutti, che nessuno dovrà mai più essere trattato come sono stata trattata io.

Mi ha portata in ospedale, dove mi hanno fatto mangiare bene, mi hanno fatto le flebo e curato tante malattie di cui io non so pronunciare nemmeno il nome.

Mi hanno tagliato i capelli, perché avevo i pidocchi, ed io ero disperata perché non potevo più metterci in mezzo i miei fiori. Allora Teresina mia mi ha regalato un foulard bellissimo, con tanti fiori stampati, coloratissimi.

Dice di avere pazienza, che i capelli ricresceranno forti e belli e io potrò di nuovo intrecciarli, e legarli col suo bel foulard.

Teresina mi racconta che è cresciuta infelice come me, dalle suore, fino a sette anni. Poi ha avuto fortuna, è stata adottata da una famiglia ricca che l’ha fatta studiare.

Il suo papà adottivo era un uomo potente, con tante conoscenze e adorava quella bambina mansueta e intelligente.

Teresina a scuola era bravissima, ha fatto l’università ed è diventata dottore.

Dev’essere un po’ matta anche lei, perché di questi tempi donne che fanno questo mestiere se ne vedono davvero poche.

Lavorare coi matti poi.

Ma lei non ha mai smesso di cercarmi.

Grazie al suo papà influente è riuscita a ricostruire la sua storia e ad intrecciarla con la mia: la margherita più bella, in mezzo ai miei capelli.


IX. Oggi vivo qui, in mezzo alla natura, coi miei animali, come avrebbe voluto Mario.

Gli parlo tutti i giorni, e tutte le domeniche vado al cimitero a portargli i fiori freschi che curo nel giardino della casa che mi ospita.

E’ una grande fattoria, mi hanno insegnato a fare il formaggio e il pane, e a coltivare i pomodori che mi piacciono tanto.

Curo i miei animali e le mie piante, giro scalza e dopo pranzo dipingo in santa pace.

Teresina mia dice che prima o poi mi organizzerà una mostra.

Io non lo so cos’è una mostra ma le faccio sì con la testa; farei tutto per Teresina mia, per renderla felice.

Anche se ha già fatto tanto da sola.

E soprattutto ha reso felice me.


X. Mi chiamo Marina, ho 45 anni, e da un mese e un giorno non vivo più al manicomio.

Ma non ho paura.

Se Teresina mia mi tiene la mano, io non ho più paura.


Il racconto A piedi nudi, si è classificato al secondo posto del Premio Nazionale di Narrativa FITel, Storie Inaspettate 2015


 

 

 

 

 

giovedì 28 aprile 2016

Venezia


I motivi che spingono a viaggiare sono innumerevoli.
Sono almeno una mezza dozzina quelli che mi hanno portata a Venezia lo scorso weekend.
C’era la voglia di portare mio figlio in un posto unico al mondo, e scoprire le sue impressioni, il suo stupore nel passeggiare in una città magica.
C’era la mia curiosità di tornare in un luogo dov’ero stata da bambina, poco più grande di Davide, e vedere cos’era cambiato e cosa invece era rimasto fedele alla mia memoria.
C’era infine il desiderio di riaccompagnare i miei genitori su un luogo della memoria, e ritrovare una coppia di amici, ormai anziani, tastare con mano il tempo che passa sul corpo altrui, e godere ancora della compagnia di due persone care, "invece di vedersi sempre ai funerali" (cito testualmente mia madre).
Siamo stati sfortunati per il mal tempo, la pioggia battente non ci ha permesso di girare Venezia in lungo e in largo come mi sarebbe piaciuto fare. A causa del freddo e del vento poi, la massa immensa di turisti si accalcava tutta in pochi luoghi, rendendo davvero difficili gli spostamenti e praticamente inagibili i luoghi al chiuso di maggior interesse.
Ma abbiamo saputo arrangiarci, adattandoci alle condizioni un po’ avverse e ad una vacanza a misura di bambino.


giovedì 14 aprile 2016

il filo rosso del rimpianto

E’ riconoscersi.
Gli stessi dolori, le stesse ferite.
Si incontrano le anime, brillano le affinità, la condivisione delle piccole cose.
Si raccontano le delusioni e rimpianti, basta uno sguardo per intravedere la vita passata dietro i solchi leggeri delle rughe.
Mani che si sfiorano in promesse che forse non si manterranno mai, ma bastano a promuovere un moto dell’anima, dimenticato da qualche parte, riposto con cura, come una sciarpa in un cassetto.
Ridere delle stesse cose, quelle risate che fanno male alla faccia, e scoppiano improvvise e scaldano da dentro.
E sorridere dopo, da soli, come sciocchi, a ripensare a quel momento, dietro la suggestione di una parola, un fatto, un episodio cui si assiste per caso sull’autobus.
E’ scambiarsi ricordi e aspettative deluse, confrontarsi come in un gioco di bambini "celo, celo, manca".
L’amico che ti tradisce, l’ex stronzo che si è portato a letto un’altra, la collega invidiosa.
L’amore in spiaggia, il caffè caldo la mattina o una madre troppo anziana da accudire.
I pomeriggi sulle scale dell’università a fumare e sognare nuova vita, e tornare al presente per mettere insieme i pezzi, "perché a vent’anni è tutto ancora intero", e ne passano altri venti prima di raccogliere tutti i cocci e ricomporli, evidenziando le ferite con una colata d’oro, come fanno i cinesi coi vasi rotti.
Passarci il dito su quelle ferite ormai chiuse, seguire il percorso delle cicatrici per vedere dove porta, cosa è restato.
Scoprire che quelle strade si incrociano a quelle di chi si trova davanti a te perché in quel percorso ti ha accompagnato passo passo, o ci è inciampato per caso, per tornare, o forse no.
La diffidenza naturale dell’inizio si scioglie nel riflesso delle reciproche paure.
Succede con tutte le nuove relazioni che si instaurano in età matura, che siano nuovi amori o amicizie.
Continuiamo a cercare il conforto di chi ci ha tenuto la mano da sempre, perché esplorare nuovi territori fa paura.
Ma se prima ci fidavamo di un abbaglio, ora è il riflesso quello che cerchiamo.
Noi stessi in chi ci sta di fronte, come uno specchio delle reciproche esistenze.

(disegno di Carlos Lalvay Estrada, trovate i suoi meravigliosi lavori QUI)