venerdì 2 ottobre 2015

A mia nonna

Di mia nonna ricordo le mani nodose, che si abbattevano inclementi sulla mia bocca ogni volta che rispondevo male.

E si infilavano ruvide e asciutte tra collo e canottiera, per sentire se ero sudata.
Aveva questa fobia mia nonna, e io giocavo a nascondino coi miei amici col terrore di vederla sbucare all’improvviso, e una volta constatato il livello di inzuppamento della canottiera della salute che mi costringeva ad indossare anche in pieno luglio, agguantarmi per un braccio e trascinarmi fino a casa, dove mi cambiava e mi avvolgeva in una nuvola di borotalco.
Le stesse mani che avvolgevano con perizia un tortellino le due volte l’anno che impastava, sapevano stringere con forza le mani del medico durante la visita per ottenere l’accompagnamento, come a dimostrare che lei non poteva e non voleva invecchiare.
Passavamo insieme intere estati nel suo paese natale, immerso nella canicola della campagna vercellese.
Le sere in giro in bicicletta, cento volte lo stesso giro, passando davanti a lei che spettegolava con le sue amiche su una panchina, tenendomi d’occhio come solo le comari di paese sanno fare.
Pedalare era l’unico modo di non farsi mangiare dalle zanzare che abitavano in sciami quella pianura divisa in rettangoli perfetti dalle risaie, che durante la primavera raddoppiavano il mondo in specchi d’acqua immobili, restituendo immagini perfette che mio padre amava fotografare, giocando ad indovinare quale sarebbe stato il verso esatto della diapositiva.
A settembre si trebbiava, e l’odore del bilon, la pellicina del riso, bruciata, è uno degli odori della mia infanzia.
Andavamo a pesca di rane, che lei uccideva con crudeltà per preparare deliziose frittate, che solo a pensarci ora, da quasi vegetariana, svengo al pensiero.
Dopo pranzo andavo sempre al bar a comprarle un fragolino, tenendomi il resto in monetine come un piccolo tesoro, che mi dava accesso a rotelle di liquirizia, ghiaccioli, partite a calcio balilla e due canzoni nel juke box.
La notte dormivamo nello stesso letto, la stanza intrisa dell’odore degli zampironi; regolarmente nel pieno del sonno mi svegliava per chiedermi l’ora, avendo perso il rintocco del campanile, che all’epoca suonava ogni quarto d’ora.
Al mare passava ore a riempire bottiglie di plastica vuote di pinoli, che in inverno liberava dal guscio dopo pranzo; il clic dello schiaccianoci accompagnava i miei pomeriggi chini sulle versioni di latino.
In inverno restava con noi durante il giorno, ci accompagnava a scuola, e attendeva l’ora di pranzo in cui tutti rincasavamo.
L’ultimo ad arrivare era mio padre, e una volta preparato il caffè, spesso salato anziché zuccherato, esordiva col solito “io vado a casa mia”, difendendo con le unghie e coi denti la propria indipendenza e la propria privacy.
Aveva occhi blu, che hanno sprizzato gioia di vivere fino all’ultimo dei suoi giorni.
Gli stessi occhi che ha ereditato mia madre ma, con suo grande disappunto, nessuno di noi figli e nipoti.
Mi aspetto di vedere spuntare fuori questo gene da qualche pronipote, magari mescolato a quelli africani di Pu, che meraviglia.
Ogni tanto si soffermava sui ricordi di guerra, il promesso sposo disperso per 4 anni, lei che si reca da una cartomante per sapere se è ancora vivo, lui che torna a casa, 40 chili con le scarpe a pezzi, tre giorni dopo la morte della madre.
E le compaesane che andavano coi tedeschi rasate a zero dopo la liberazione, marchiate per sempre come traditrici.
Non parlava volentieri di quel periodo, eppure ogni tanto glielo chiedevo io, insieme alle storie di famiglia, le cugine Giuanina e Selvaggia che ci facevano tanto ridere, e la sua gemella nata morta.
Era una professionista delle polpette, che faceva con l’avanzo di qualsiasi cosa, e del fritto, perché si sa, da buona piemontese, fritta è buona pure una suola da scarpe.
Passava pomeriggi interi a sferruzzare a maglia, e durante l’adolescenza ha assecondato ogni mia voglia in tal senso, dalle borse, agli sciarponi, fino a i manicotti da cui spuntava solo il pollice che facevano tanto alternative-underground.
Creava pezzi unici che tutte le mie amiche mi invidiavano, compresi berretti stilosi, che confezionava utilizzando quattro ferri.
Inutile dirvi che io non ho ereditato nemmeno un decimo di quel talento.
Mi limitavo ad aiutarla a avvolgere la lana che riutilizzava disfacendo vecchi maglioni, su un bizzarro attrezzo di legno coi bracci pieghevoli.
Ne uscivano ampi gomitoli che lei lavava e stendeva nella vasca da bagno, prima di trasformare un maglione in un mini abito.
Negli ultimi anni della vecchiaia il forte abbassamento della vista era stata una delle sue più grosse cause di sofferenza; aveva la terza elementare ma leggeva il giornale ogni giorno ed era sempre sul pezzo, dal gossip alla politica estera.
Mi mancano quelle mani nodose che a stento riuscivano a tenere in braccio mio figlio neonato.
E che mi strofinavano la pancia quand’ero malata al ritmo di una nenia in piemontese che sembrava il canto rituale di uno sciamano “zan zan zan, al malaviu il port al san” (non so scrivere il piemontese, se qualche vercellese vuole correggermi gliene sarei grata).
E il sapore unico del suo sugo, che mangiavo condendo un uovo fritto.
A volte mi pento dei mancati abbracci che non ho saputo darle quando forse ne aveva più bisogno.
E da quando è morta sogno sempre, ciclicamente che sia tornata in vita, nonostante la sua morte sia stata un immenso e colpevole sollievo per tutti. Lei in primis.
Il peso dei vecchi è un peso difficile da sopportare, e ancora più difficile da confessare.
Pu la ricorda appena, la nonna vecchina che la faceva sempre giocare.
Io ho voluto dedicarle il mio blog, perché è anche grazie a lei se ho cominciato a scrivere, appuntandomi la storia della sua vita
Allegro era il suo cognome, nomen omen, dicevano i latini.
Eles il suo nome, un nome raro e inusuale, che mi inorgogliva, perché nessuno aveva una nonna con un nome così.
Il mio carattere solare lo devo in parte anche a lei, sempre in piedi di fronte alle avversità della vita, a cui si è ancorata con le unghie e coi denti fino all’ultimo giorno, se pensate che è andata a morire nel suo letto con le sue gambe.
Il letto dove ora dorme Pu, e questa continuità mi da pace verso il ciclo ineluttabile della vita.


Nessun commento:

Posta un commento