giovedì 27 febbraio 2014

La Grande Bellezza


Ora indosso gli occhialetti sulla punta del naso e mi trasformo nella maestrina dalla penna rossa.
E sfoggio un po’ di erudizione, che male non fa mai.
Del resto una laurea in Conservazione dei Beni Culturali in saccoccia ce l’ho.
Eccheccazzo.
Peccato che sia lì appesa ed incorniciata con amore da mia mamma, e serva solo a coprire una crepa nel muro.
Ma non sono qui per parlare di questo.

Bensì del nuovo film del bell’omo dei giorni nostri, dicasi George Clooney.

L’avete visto qualche sera fa da Fazio? Con Matt Demon e Jean Dejardin (vogliamo parlarne? Quanto è figo? Chiusa parentesi), a presentare quello che diventerà il caso “americanata” della stagione: “The Monuments Man”.
Che tra l’altro a me Clooney piace un sacco come regista.
Certo lo vedrei sempre meglio aggirarsi nella mia cucina con solo indosso un grembiulino a prepararmi Whatelse, ma non divaghiamo.
Dicevo, The Monuments Man.

Sono sicura che il film di per sé sarà bellissimo, e la storia è senz’altro interessante.
Ma qui oso dirlo: odio questa spocchia americana del venirci a insegnare la NOSTRA storia.
Perché è inutile nasconderlo ma gli americani ce l’hanno nel DNA ‘sta cosa de “il mondo èèèmmmmiiiooo”.

Ce l’hanno nonostante l’edificio più vecchio di New York abbia 150 anni, nonostante siano il nuovo mondo, nonostante loro stessero a spaccare noci di cocco a testate mentre Michelangelo dipingeva la Cappella Sistina. (un po’ di sano qualunquismo è liberatorio di tanto in tanto!)

Hanno recuperato per carità, ma non mancano occasione per non farlo notare.
Soprattutto a noi italiani.

Questo mito della “Grande Bellezza” italiana, tanto celebrata in questi giorni sulla scia del bellissimo film di Sorrentino (tanto da diventare persino il tema del Sanremo più soporifero degli ultimi 50 anni) è quello che ci rende così orgogliosi e frustati allo stesso tempo quando andiamo all’estero.
Ancor più a chi, come me, ha fatto di questa materia oggetti di studi e di passione.

Proprio in questi giorni in cui, bufala o no, la storia dell’arte sta piano piano scomparendo dai piani di studio scolastici, in cui Pompei cade a pezzi e chiamiamo i tedeschi per ricostruirla, e gli inglesi ci fanno una super mostra a Londra che ha registrato il tutto esaurito nel giro di un mese.

E noi che siamo intrisi di tutta questa roba, che la storia, l’arte e la cultura ce l’abbiamo intorno ovunque quando camminiamo, che siamo cresciuti a pane e Dante Alighieri, le nostre meraviglie le schifiamo, con l’alterigia che si riserva alle cose troppo scontate.

Per avere un’idea di come gli americani considerino le bellezze artistiche italiane basta guardare quel polpettone con Julia Roberts che è “Mangia, prega, ama”.
E naturalmente leggere Dan Brown.

Che ha fatto i miliardi scrivendo (male, malissimo), di cose che per noi sono… non riesco nemmeno a dire normali. Sono semplicemente lì: ci sono, ci saranno e ci sono sempre state.

E la stessa cosa sta succedendo con questi “Monuments Man”.

Sulla scia di questo evento Hollywoodiano, lo scrittore del libro da cui è stato tratto sta diventando una specie di munifico promotore della causa dei soldati/esperti d’arte che durante la seconda guerra mondiale salvarono tante opere d’arte dalle mani dei nazisti (ha persino creato una Fondazione per questo, non mancherò di scrivergli!); e George Clooney, d’altro canto, l’eroe dei nostri giorni per aver riportato all’onore delle cronache il coraggio e il sacrificio dei suddetti soldati, ovviamente americani.

Sempre con quell’atteggiamento lì: se il Ponte Vecchio non ve l’abbiamo tirato giù dovete solo dire grazie a NOI, ok?

Eh già, perché noi poveri beceri italiani non sappiamo fare niente senza voi americani.
E meno male che ci siete voi americani ad insegnarci la nostra storia dell’arte.

Come Dan Brown, che non sa distinguere un capitello ionico da uno corinzio. (cit.)
E che sproloquia di storia delle religioni, non sapendo che il pubblico italiano, nonostante tutto, è un pelino più preparato di quello americano.
Tanto che nelle edizioni più recenti de “Il codice da Vinci” ha dovuto eliminare l’incriminata pagina 9, di introduzione, in cui dichiarava: “Tutte le descrizioni di opere d’arte e architettoniche, di documenti e rituali segreti contenute in questo romanzo rispecchiano la realtà”.
Forse perché il pubblico italiano l’ha sbugiardato più di una volta.

O semplicemente perché le infinite digressioni in cui Brown si perde per dare sfoggio di erudizione, per noi italiani sono talmente lapalissiane da diventare persino noiose.

Che bisogno c’è, per fare un esempio, di spiegarmi che il termine francese che sta per toro,  “taureau” deriva dal latino “Taurus”? Un americano ha bisogno di questa spiegazione; noi il latino lo studiamo (o meglio studiavamo, oggi non so) alle medie.
Il latino è la nostra lingua.

E avrei un’infinità di esempi simili, ma un giorno aprirò un post solo dedicato a Dan Brown.

Lo stesso dicasi per l’eroico Robert M. Edsel, lo scrittore del libro da cui è tratto il film, che diventa il paladino dei nostri tempi, ignorando forse che durante la seconda guerra mondiale, tutti i soprintendenti, di tutte le città d’arte italiane, si  armarono di inventiva e coraggio per proteggere il più possibile le nostre meraviglie artistiche.

Non so cosa successe nelle altre città, ma so cosa successe a Genova perché ho passato un anno negli archivi della Soprintendenza per studiare cosa accadde in quegli anni drammatici.

Per imparare che anche noi abbiamo i nostri Frank Stokes,  James Granger e Jean-Claude Clermont, solo che hanno nomi molto meno “cool”, Ceschi, Morassi, Orlando, ma erano animati dallo stesso fuoco e dalla stessa urgenza: proteggere opere d’arte uniche e antiche di secoli, costretti dalle circostanze ad un drammatico “triage”, inventandosi ricoveri dislocati in tutta Italia (pensate che da Genova molte opere furono dislocate nelle Isole del lago Maggiore), per sottrarre le opere d’arte alle avide mani dei nazisti; comprese tra l’altro numerose collezioni appartenenti a famiglia di origine ebrea.

Solo che l’italian-style è sempre quello di ignorare i nostri talenti, mentre gli americani ne stanno facendo un colossal hollywoodiano che incasserà milioni.

Poi la cultura non paga, dice.

Non fraintendetemi, non ho niente contro gli americani e smanio di fare un viaggio negli States prima o poi nella mia vita.
 
Ma questa spocchia… dio come mi da sui nervi.

Bene, finita la lezioncina di storia “de noiatri”, la conclusione amara è sempre quella.
La consapevolezza di vivere in un paese meraviglioso, unico al mondo. E in una città, la mia, meravigliosa e unica al mondo (una delle tante in Italia, e una delle meno valorizzate).
E non essere in grado di sfruttarne le risorse, e piegarci ad accettare lezioncine da saccenti professori di Harvard o registi di Hollywood che ci ricordano ad ogni momento. “Ehilà, voi siete questo, ma ad arricchirci siamo sempre noi! Congratulations!”.

E avere il coraggio un giorno, di spostare quel quadro che incornicia la mia laurea, e mostrare quella crepa come il simbolo dell’Italia che siamo: bella e imperfetta, che non merita di essere nascosta, mai.




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