Uscivamo nella notte, come falene impazzite, attirate dalle
luci fluorescenti dei neon e dalleinsegne luminose dei locali sul lungo mare.
Indossavamo calze a rete e anfibi finto-nazi, e giacche di
pelle consunte ai gomiti.
Scioglievamo sotto la lingua cartoncini dal gusto metallico,
per esaltare i sensi e godere di una realtà nuova, fatta di contorni vividi,
colori psichedelici e luci danzanti come fuochi fatui al cimitero.
Ridevamo smargiasse, creando scompiglio ovunque ci
presentassimo, mano nella mano, anelli d’argento, bracciali di plastica e
lunghi capelli a fare da cortina al viso, una maschera di trucco pesante, occhi
neri, labbra vermiglie, in un perenne broncio di sfida al “fammi ridere se
puoi”.
Calavamo drink fino alle luci dell’alba, offerti da
sconosciuti in cambio di qualche servizietto nei cessi delle discoteche.
Offrivamo i nostri corpi giovani con leggerezza, facendo a gara a chi la
sparava più grossa. Alzavamo la posta sempre di più, a seconda dello stronzo
che ci si parava davanti.
Stella una volta ha fatto credere a uno di essere vergine,
l’ha guardato con occhioni spauriti da Bambi, con troppo mascara sulle ciglia,
e quello come una bestia feroce che già se la mangiava con gli occhi, le
pupille come capocchie di spillo.
Un’altra volta io e Giuditta abbiamo cominciato a baciarci,
e Stella in un angolo che rideva sguaiata e riprendeva tutto col telefonino.
Intanto il pollo ci ha sganciato 300€ per godersi lo
spettacolo, e per noi non c’era niente di strano o provocatorio nel fare quello
che facevamo.
Un’anima sola in tre corpi distinti ma simili per fattezze.
Io, Stella e Giuditta.
Le falene della notte, creature che spiccavano il volo solo
col favore del buio.
Di giorno fingevamo, ci trasformavamo in farfalle leggiadre,
dai colori sgargianti, ma la nostra essenza si percepiva lontano un miglio.
Le anime come le nostre si riconoscono tra centomila, e
quelli là fuori se ne tengono alla larga, come fossimo una malattia contagiosa.
A scuola i golfini color pastello e i cerchietti bombati non
bastavano a mascherare la nostra natura; le gonne erano sempre troppo corte, i
pantaloni troppo aderenti, le camicette troppo scollate.
Me lo ricordo ancora il prof. di italiano a sbirciare nella
mia scollatura che lasciava intravedere un reggipetto virginale, di pizzo
bianco, asciugarsi con gesto studiato il sudore che gli imperlava il labbro
superiore.
E lasciarlo ansimarmi cose sconce nell’orecchio negli
spogliatoi della palestra, e venirsi nelle mutande come un dodicenne infoiato,
per ottenere in cambio un quadrimestre immacolato.
Stella, Giuditta e io, che poi sarei Soledad[1],
per gli amici Sole.
La dicotomia di questo nome me la porto appresso da quando
sono nata: le ombre delle anime solitarie, nascoste dalla luce del nome con cui
tutti mi conoscono.
Io, Giuditta e Stella, il nostro mondo privato dove non era
concesso di entrare a nessuno.
Passavamo i pomeriggi in casa di una o dell’altra, con la
scusa dei compiti, ascoltando musica-rock-alternative a palla e studiando i
nostri corpi diafani.
Facevamo a gara a chi resisteva più giorni senza mangiare,
ci contavamo le costole, accarezzavamo le anche sporgenti, ed esploravamo le
differenze e le somiglianze, senza malizia, come ninfe nel nostro
personalissimo Eden.
I seni tondi e minuti di Stella, i capelli ricci e nerissimi
di Giuditta, l’incavo dell’ombelico nella mia pancia piatta.
Mescolavamo il sudore e la saliva e il sangue, nel patto di
amicizia che ci univa da quando eravamo bambine.
Incidevamo il nostro dolore sulla pelle con lamette sterili
e osservavamo il sangue uscire copioso.
Ci medicavamo a vicenda, affinché le nostre ferite non si
infettassero e le cicatrici rimanessero come un marchio a fuoco, solo nostro.
Eravamo una cosa sola, a sfidare il mondo là fuori.
Ci divertivamo a provocare i ragazzi più grandi con mosse
studiate da donne vissute, quali in effetti eravamo senza nemmeno rendercene
conto.
Passeggiavamo sul lungo mare in short minimal per esaltare le
gambe lunghe e magrissime, leccavamo sfrontate gelati di forma fallica e
ridevamo innocenti, come Lolite ignare di attirare su di noi sguardi curiosi e
impudichi.
Nessuno nella cerchia dei nostri amici e parenti poteva
immaginare cosa eravamo in realtà.
Le compagne di classe pettegole andavano in giro additandoci
come puttane, ma per noi era un gioco tutto nostro. Aumentare la posta in
gioco, alzare sempre di più la stanghetta del limite, vedere fino a dove
riuscivamo a spingerci, provocare reazioni, vivere quella che credevamo la più
figa delle vite possibili.
Chi poteva sospettare quello che si muoveva nel profondo dei
nostri animi?
Mio padre era troppo impegnato a sbattersi la segretaria del
suo rinomato studio medico, pensando di non farsi beccare da nessuno.
Mia madre, psicologa – che beffa del destino vero? - si
trincerava in ospedale, con i suo matti, come amava dire lei, rifugiandosi nel
loro mondo per non vedere, non soffrire, insensibile al mondo, dimentica anche
di me.
Non si è mai chiesta dove scappassi la sera, non ha mai
fatto scenate nel vedermi arrivare alle 6 del mattino, non mi chiedeva mai dove
fossi stata o con chi. Ero con Stella e Giuditta, e tanto bastava.
Io cercavo di non darle preoccupazioni evidenti; studiavo il
minimo indispensabile, mangiavo il minimo indispensabile, le raccontavo il
minimo indispensabile che serviva a farle credere che la mia vita di
adolescente scorresse tranquilla e libera dai pensieri; niente più di quelli
che crucciavano le mie compagne.
Ogni tanto mi mostravo scontrosa, le raccontavo del ragazzo
di turno che mi aveva mollata, e lei a consolarmi, che l’uomo giusto sarebbe
arrivato presto, quando meno me lo sarei aspettata.
Mi sgridava quando mi vestivo troppo da maschiaccio secondo
lei, che ero così bella… come una farfalla in attesa di uscire dal suo bozzolo.
Non poteva immaginare, non poteva nemmeno intuire.
Di giorno farfalle, studentesse modello, sportive, attaccate
alla famiglia quanto basta.
Di notte falene impazzite, a respirare polvere bianca
offerta da rampolli con istinti pedofili, e strusciarci negli angoli più
reconditi della nostra coscienza lisergica, per dimostrare a noi stesse fin
dove potevamo arrivare.
*** ***
Eravamo nella sala d’aspetto del pronto soccorso e Giuditta
mi stritolava la mano per la paura. Un’infermiera bastarda ci guardava da
sottinsù, come fossimo schifosi scarafaggi da schiacciare con i suoi zoccoli
lerci.
Stella non respirava più; gli occhi girati e la schiuma alla
bocca.
Credevamo fosse un gioco.
Avevamo 18 anni da un giorno e quella vita non ci sarebbe
appartenuta mai più.
*** ***
Giuditta non mi guarda, lo sguardo vacuo della demenza, la
mano storta in una posa innaturale, rigida come tutta la parte destra del
corpo.
La prendo tra le mie e passo un dito sulla ragnatela di
cicatrici intorno al polso, che mi sono così familiari; cerco un contatto, non
so nemmeno se mi ascolta.
Dondola avanti e indietro, emettendo un suono gutturale.
Le asciugo una striscia di saliva, brillante come la scia di
una lumaca, che le cola all’angolo della bocca.
Quella notte Stella è morta, e Giuditta ci è rimasta dentro.
Io, entrambe le cose.
Sono morta con loro, sono con loro in quel manicomio di urla
stonate e psicofarmaci distribuiti in dosi generose.
Nel gioco delle tre carte che eravamo io, Stella e Giuditta,
è toccato a me portarmi addosso la soledad
dei sopravvissuti.
La combatto ogni giorno al lavoro, lo stesso di mia madre –
che beffa del destino, vero? - accogliendo e ascoltando i ragazzi e le ragazze
che sono passati attraverso il mio stesso dolore; loro si fidano di me.
Perché ci riconosciamo; anime gemelle tra centomila, che
quelli là fuori tengono alla larga, come una malattia contagiosa.
Il racconto Falene nella notte ha vinto il premio della critica del 1° concorso letterario
indetto dalla Proloco Giovani di Darfo Boario Terme, dal tema "Luci e
Ombre", ed è arrivato tra i finalisti del Premio Letterario Italo Zucca
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