sabato 12 dicembre 2015

Falene Nella Notte

Uscivamo nella notte, come falene impazzite, attirate dalle luci fluorescenti dei neon e dalleinsegne luminose dei locali sul lungo mare.
Indossavamo calze a rete e anfibi finto-nazi, e giacche di pelle consunte ai gomiti.
Scioglievamo sotto la lingua cartoncini dal gusto metallico, per esaltare i sensi e godere di una realtà nuova, fatta di contorni vividi, colori psichedelici e luci danzanti come fuochi fatui al cimitero.
Ridevamo smargiasse, creando scompiglio ovunque ci presentassimo, mano nella mano, anelli d’argento, bracciali di plastica e lunghi capelli a fare da cortina al viso, una maschera di trucco pesante, occhi neri, labbra vermiglie, in un perenne broncio di sfida al “fammi ridere se puoi”.
Calavamo drink fino alle luci dell’alba, offerti da sconosciuti in cambio di qualche servizietto nei cessi delle discoteche. Offrivamo i nostri corpi giovani con leggerezza, facendo a gara a chi la sparava più grossa. Alzavamo la posta sempre di più, a seconda dello stronzo che ci si parava davanti.
Stella una volta ha fatto credere a uno di essere vergine, l’ha guardato con occhioni spauriti da Bambi, con troppo mascara sulle ciglia, e quello come una bestia feroce che già se la mangiava con gli occhi, le pupille come capocchie di spillo.
Un’altra volta io e Giuditta abbiamo cominciato a baciarci, e Stella in un angolo che rideva sguaiata e riprendeva tutto col telefonino.
Intanto il pollo ci ha sganciato 300€ per godersi lo spettacolo, e per noi non c’era niente di strano o provocatorio nel fare quello che facevamo.
Un’anima sola in tre corpi distinti ma simili per fattezze.
Io, Stella e Giuditta.
Le falene della notte, creature che spiccavano il volo solo col favore del buio.
Di giorno fingevamo, ci trasformavamo in farfalle leggiadre, dai colori sgargianti, ma la nostra essenza si percepiva lontano un miglio.
Le anime come le nostre si riconoscono tra centomila, e quelli là fuori se ne tengono alla larga, come fossimo una malattia contagiosa.
A scuola i golfini color pastello e i cerchietti bombati non bastavano a mascherare la nostra natura; le gonne erano sempre troppo corte, i pantaloni troppo aderenti, le camicette troppo scollate.
Me lo ricordo ancora il prof. di italiano a sbirciare nella mia scollatura che lasciava intravedere un reggipetto virginale, di pizzo bianco, asciugarsi con gesto studiato il sudore che gli imperlava il labbro superiore.
E lasciarlo ansimarmi cose sconce nell’orecchio negli spogliatoi della palestra, e venirsi nelle mutande come un dodicenne infoiato, per ottenere in cambio un quadrimestre immacolato.
Stella, Giuditta e io, che poi sarei Soledad[1], per gli amici Sole.
La dicotomia di questo nome me la porto appresso da quando sono nata: le ombre delle anime solitarie, nascoste dalla luce del nome con cui tutti mi conoscono.
Io, Giuditta e Stella, il nostro mondo privato dove non era concesso di entrare a nessuno.
Passavamo i pomeriggi in casa di una o dell’altra, con la scusa dei compiti, ascoltando musica-rock-alternative a palla e studiando i nostri corpi diafani.
Facevamo a gara a chi resisteva più giorni senza mangiare, ci contavamo le costole, accarezzavamo le anche sporgenti, ed esploravamo le differenze e le somiglianze, senza malizia, come ninfe nel nostro personalissimo Eden.
I seni tondi e minuti di Stella, i capelli ricci e nerissimi di Giuditta, l’incavo dell’ombelico nella mia pancia piatta.
Mescolavamo il sudore e la saliva e il sangue, nel patto di amicizia che ci univa da quando eravamo bambine.
Incidevamo il nostro dolore sulla pelle con lamette sterili e osservavamo il sangue uscire copioso.
Ci medicavamo a vicenda, affinché le nostre ferite non si infettassero e le cicatrici rimanessero come un marchio a fuoco, solo nostro.
Eravamo una cosa sola, a sfidare il mondo là fuori.
Ci divertivamo a provocare i ragazzi più grandi con mosse studiate da donne vissute, quali in effetti eravamo senza nemmeno rendercene conto.
Passeggiavamo sul lungo mare in short minimal per esaltare le gambe lunghe e magrissime, leccavamo sfrontate gelati di forma fallica e ridevamo innocenti, come Lolite ignare di attirare su di noi sguardi curiosi e impudichi.
Nessuno nella cerchia dei nostri amici e parenti poteva immaginare cosa eravamo in realtà.
Le compagne di classe pettegole andavano in giro additandoci come puttane, ma per noi era un gioco tutto nostro. Aumentare la posta in gioco, alzare sempre di più la stanghetta del limite, vedere fino a dove riuscivamo a spingerci, provocare reazioni, vivere quella che credevamo la più figa delle vite possibili.
Chi poteva sospettare quello che si muoveva nel profondo dei nostri animi?
Mio padre era troppo impegnato a sbattersi la segretaria del suo rinomato studio medico, pensando di non farsi beccare da nessuno.
Mia madre, psicologa – che beffa del destino vero? - si trincerava in ospedale, con i suo matti, come amava dire lei, rifugiandosi nel loro mondo per non vedere, non soffrire, insensibile al mondo, dimentica anche di me.
Non si è mai chiesta dove scappassi la sera, non ha mai fatto scenate nel vedermi arrivare alle 6 del mattino, non mi chiedeva mai dove fossi stata o con chi. Ero con Stella e Giuditta, e tanto bastava.
Io cercavo di non darle preoccupazioni evidenti; studiavo il minimo indispensabile, mangiavo il minimo indispensabile, le raccontavo il minimo indispensabile che serviva a farle credere che la mia vita di adolescente scorresse tranquilla e libera dai pensieri; niente più di quelli che crucciavano le mie compagne.
Ogni tanto mi mostravo scontrosa, le raccontavo del ragazzo di turno che mi aveva mollata, e lei a consolarmi, che l’uomo giusto sarebbe arrivato presto, quando meno me lo sarei aspettata.
Mi sgridava quando mi vestivo troppo da maschiaccio secondo lei, che ero così bella… come una farfalla in attesa di uscire dal suo bozzolo.
Non poteva immaginare, non poteva nemmeno intuire.
Di giorno farfalle, studentesse modello, sportive, attaccate alla famiglia quanto basta.
Di notte falene impazzite, a respirare polvere bianca offerta da rampolli con istinti pedofili, e strusciarci negli angoli più reconditi della nostra coscienza lisergica, per dimostrare a noi stesse fin dove potevamo arrivare. 
***   ***
Eravamo nella sala d’aspetto del pronto soccorso e Giuditta mi stritolava la mano per la paura. Un’infermiera bastarda ci guardava da sottinsù, come fossimo schifosi scarafaggi da schiacciare con i suoi zoccoli lerci.
Stella non respirava più; gli occhi girati e la schiuma alla bocca.
Credevamo fosse un gioco.
Avevamo 18 anni da un giorno e quella vita non ci sarebbe appartenuta mai più.

***   *** 
Giuditta non mi guarda, lo sguardo vacuo della demenza, la mano storta in una posa innaturale, rigida come tutta la parte destra del corpo.
La prendo tra le mie e passo un dito sulla ragnatela di cicatrici intorno al polso, che mi sono così familiari; cerco un contatto, non so nemmeno se mi ascolta.
Dondola avanti e indietro, emettendo un suono gutturale.
Le asciugo una striscia di saliva, brillante come la scia di una lumaca, che le cola all’angolo della bocca.
Quella notte Stella è morta, e Giuditta ci è rimasta dentro.
Io, entrambe le cose.
Sono morta con loro, sono con loro in quel manicomio di urla stonate e psicofarmaci distribuiti in dosi generose.
Nel gioco delle tre carte che eravamo io, Stella e Giuditta, è toccato a me portarmi addosso la soledad dei sopravvissuti.
La combatto ogni giorno al lavoro, lo stesso di mia madre – che beffa del destino, vero? - accogliendo e ascoltando i ragazzi e le ragazze che sono passati attraverso il mio stesso dolore; loro si fidano di me.
Perché ci riconosciamo; anime gemelle tra centomila, che quelli là fuori tengono alla larga, come una malattia contagiosa.


Il racconto Falene nella notte ha vinto il premio della critica del 1° concorso letterario indetto dalla Proloco Giovani di Darfo Boario Terme, dal tema "Luci e Ombre", ed è arrivato tra i finalisti del Premio Letterario Italo Zucca






[1] Soledad in spagnolo significa “solitudine”

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