mercoledì 23 ottobre 2013

Siamo tutte Wonderwomen


Mi alzo alle 7, fuori è ancora buio e comincia a fare freddo al mattino a piedi scalzi.
Accendo la luce piccola in cucina per non svegliare ancora i miei uomini e vado in bagno, cercando di non fare rumore. Mi infilo sotto la doccia, velocemente.
Odio lavarmi al mattino.
Preferisco tenermi addosso il tepore del letto, e regalarmi piuttosto una lunga doccia serale, mettermi a letto pulita.
Ma ieri sera abbiamo fatto le ore piccole, era il compleanno di una cara amica, e non ho saputo dire di no, anche se stamattina per svegliare tutti serviranno le cannonate.
Preparo il bibe con latte e biscotti per Pu, e finisco di preparare la mia borsa del pranzo; l’insalata dal frigo, un po’ di frutta per lo sbrano pomeridiano, onde evitare di mangiarmi 8 barette Kinder.


Lascio i soldi per pagare l’asilo sul tavolo a Pi, oggi è il primo del mese.
Entro in camera e cerco a tentoni gli abiti che ho preparato ieri sera, stratagemma utile per risparmiare qualche minuto ed evitare di arrivare in ufficio con la maglia indossata al contrario o i calzini spaiati.
Quasi quasi carico la lavatrice, Pi stenderà quando torna a casa, dopo aver accompagnato Pu all’asilo.
Sono quasi le sette e mezza.
Alzo le serrande in cucina e comincio a fare un po’ di rumore, sperando che Pu si svegli.
L’uomo nero russa ancora della grossa.
Metto la merenda nello zainetto, tiro fuori dall’armadio un cappellino, stamattina c’è vento mi pare.
Vado a svegliare Pu dolcemente, gli infilo il bibe in bocca e aspetto che se lo ciucci coccolandomelo un po’.
Finalmente apre gli occhi, “mamma”.
E comincia a raccontarmi un sacco di cose che ha fatto ieri, o forse stanotte non so.
“ho finito il lattino” e mi allunga il bibe. Lo prendo, lo sciacquo e lo metto in lavastoviglie.
Nel frattempo Pu si è alzato, piedi nudi e pigiamino, starei tutta la mattina a mangiarmelo di baci sotto il piumone.
“Vai a lavorare mamma?”
“Sì tesoro, ora vado”
“Vai a lavorare con la moto? Io vedo la moto”.
“Sì, dillo a papà Pu, io vado”

Infilo la testa in camera
“Pi vado, c’è da stendere quando torni, guarda che Pu è in piedi, alzati”
Mi risponde con un grugnito che vuol dire sì.

“Chiudo la porta”, Pu è dietro di me che aspetta che io esca.
Mi infilo la giacca
“bacino mamma” e sporge il muso verso di me.
“vai da papà, fila!”
Gli dico, e un groppo allo stomaco mi accompagnerà per tutto il giorno, a pensare al mio bambino sulla porta di casa, che mi da un bacino bavosetto e poi chiude, con fare da omino responsabile.
Passo con la moto sotto casa, e vedo il suo musino sorridente dietro il vetro della finestra, la tenda scostata, che mi fa ciao ciao con la manina, sorretto da Pi.

Da quel momento io non so più cosa succede a mio figlio. Se farà capricci, con chi giocherà, chi lo farà ridere, quali parole nuove imparerà o cosa mangerà per pranzo.

Metto il casco e salgo in moto, 40 minuti di traffico dopo sono seduta davanti al mio schermo, a fare colazione spulciando la posta.
Preferisco così, risparmio tempo ed evito di arrivare alle 10.30 con la voglia di un piatto di lasagne.
Lavoro, menate, capo, colleghi, battute idioti, discorsi inutili da bar. Quel rigore non c’era, e andiamo a pranzo al Bar Ugo che c’è la cameriera con le tette grosse.
Telefonata di rito a Pi per sapere se il nano è stato bravo, telefonata di rito a mia madre per sapere se il nano è stato bravo, ha mangiato, ha fatto la cacca.

Pausa pranzo mediamente dedicata alla spesa, talvolta al caffè con un’amica con ritmi peggiori dei miei.

Esco, altri 40 minuti di moto in un traffico bestiale, e poi ti fa male la cervicale dici.
Chiamo mia mamma per sapere dove sono, santa nonna, sempre, fortissimamente santa, e vado a prendere Pu. Se non ho commissioni da fare facciamo un giro, una spesa veloce prima di arrivare a casa.
Pi è al lavoro, in settimana ci alterniamo abbastanza, non ci vediamo quasi mai.

Pu si leva calze e scarpe appena entrati in casa, infila le calze “nel buco”, come gli ha insegnato mia mamma – e io a sentirmi una merda, che quando ce l’ho il tempo di insegnarli che le calze si mettono nelle scarpe quando te le togli – corre in cameretta, porta in sala un po’ di giochi e sta lì, mentre io preparo cena. A volte mi aiuta, gli piace fare quello che faccio io, schiacciare il bottone del minipimer, rimescolare il sugo, impastare la pizza.

“Mamma mangiamo”, quello mangerebbe alle sei.
Preparo tavola, impiatto, si mangia. Un’oretta di cartoni, lotta per lavare i denti, lotta per mettere il  pigiama, mezz’ora di favole e coccole nel lettino e finalmente nanna.

Quindi un paio d’ore per me, per preparare le cose per il giorno dopo, mettere in ordine la cucina, preparare un piatto da mettere in caldo per Pi che mangia quando arriva, anche se è tardi, cazzeggiare un po’ con le mie amiche su FB. Mettermi a letto e crollare dopo due pagine del libro di Fred Vargas che non riesco a finire, perché la sera sono spesso troppo stanca per leggere.

Una giornata tipo, quando tutto va bene.
Ossia: quando Pu non è malato (mobilita i nonni, il pediatra, avvisa le maestre), quando non piove (alzati un’ora prima, prendi il treno, arriva a casa due ore dopo), quando Pi è qui e non via per lavoro, quando IO non sono malata, quando i miei non hanno altri impegni o problemi di sorta.
Perché basta una piccola, piccolissima variabile per mandare a monte un ingranaggio che funziona alla perfezione.
Perché in questo paese non è ammesso che un bambino si ammali.
E non è nemmeno vagamente concepibile che una mamma e un papà lavorino che so? dalle 10 alle 16, per permetterti di avere una vita al di fuori dell’ufficio, del supermercato, della fabbrica, del negozio dove lavori; pensate agli orari scolastici e ditemi quanti di voi li trovano compatibili con gli orari lavorativi.
Per non parlare delle attività extra-scolastiche.
In vita mia io non potrò MAI accompagnare né andare a prendere mio figlio a scuola.
Dovrò sempre fare affidamento sui nonni, su mio marito, finché anche lui ne avrà la possibilità, su qualche amica mamma insegnante o casalinga, che magari si prende Pu a giocare ai giardini finché non arrivo io.

Fate figli, dicono.

E ci sono donne che, finito di lavorare, oltre a pensare alla propria famiglia, hanno sulle spalle anche la famiglia d’origine, mamma e papà anziani, o acquisita, suoceri.
(Nei primi vent’anni della tua vita versi lo stipendio direttamente ad asili e baby sitter; nei successivi 20 a colf e badanti)
Che fanno la spesa alle sette di sera mentre i supermercati tirano giù le serrande, che per delle banali analisi del sangue devono chiedere permessi su permessi, incastrare orari e turni coi colleghi. Che sono costrette a bruciarsi tanti giorni di ferie quando il bambino è malato, perché non c’è nessuno che può tenerlo, e nessun datore di lavoro ti tutela in questo senso.

Ci sono donne che invece, dall’alto della loro posizione privilegiata, si permettono di sparare sentenze, di sperticarsi in apologie della mamma che lavora, che la gravidanza mica è una malattia, e “ah io? Come faccio ad essere così magra? Ma è Arnolfo Lapo che mi tiene in forma! Da quando sono madre vivo una seconda giovinezza!”.

Eccerto. Perché non fai un cazzo da mane a sera.
Perché il tuo massimo impegno lavorativo è condurre il Grande Fratello tre ore a settimana; e dividerti tra estetista e personal trainer con uno stuolo di nannies al seguito!

Che poi mica giudico, IO.
Tu sei liberissima di viverti la TUA vita di starlette e soubrette ma abbi almeno la decenza di TACERE.

Che una torni a condurre Striscia la Notizia a tre giorni dal parto e che sia entrata in travaglio mentre conduceva, a me non disturba.
Ma mi disturba che lo faccia sbandierando ai quattro venti che la gravidanza non è una malattia, relegando nel cantuccio delle lamentose fancazziste il resto del genere femminile che ha la colpa di avere un normale lavoro che ti tiene fuori casa 10 ore al giorno, e una normale vita fatta di corse, frenesia, sensi di colpa, frustrazioni, recite mancate, prime parole a cui assistono la tata o la nonna, salti mortali per partecipare a saggi di fine anno, riunioni scolastiche, colloqui coi professori e feste di compleanno.

Mi disturba la supponenza, la mancanza di spirito di squadra, l’essere cieche e sorde di fronte al pericolo e alle conseguenze celati dietro affermazioni del genere. Noi donne ci siamo dovute sudare da sempre i diritti fondamentali come il voto, l’aborto, l’istruzione, il lavoro, la maternità, persino una legge che ci difenda da botte e omicidi per “passione”.
E la leggerezza con cui una donna come me mi punta il dito addosso lasciando intendere “se lo faccio io potete farlo tutte, e se non lo fate siete delle pigre approfittatrici, sanguisughe dello stato sociale”, mi lascia letteralmente a bocca aperta. In un momento storico come questo, in un paese in ginocchio, che regredisce sempre più, là dove nella media europea donne e mamme lavoratrici (e sempre più spesso anche papà!) sono tutelate come un patrimonio dell’umanità, ci tocca assistere alla lezioncina della soubrette di turno, che ha come massimo problema non rovinarsi il gel alle unghie mentre cambia un pannolino.

Non concepisco questa guerra tra donne, divise tra wonderwoman e “mussemolle” (espressione gergale genovese, a indicare donna con tendenza alla pigrizia) a colpi di tutona e tacco 12.
Che se solo facessimo gioco di squadra spaccheremmo il culo ai passeri in questo porco mondo. Che se in parlamento ci fossimo io e te e molte altre come me e te, invece delle mariestellegelmini forse le cose potrebbero cambiare davvero in questo paese. Solo che ce lo dimentichiamo troppo spesso quanto siamo forti, multitasking, tenaci, risolute e cazzute. E fanno di tutto per farcelo dimenticare, per relegarci nel cantuccio, e avvoltolarci su noi stesse e sulle miseriucce da perpetue di paese, così da levarci la forza di reagire.

Femminista io, sì. E vorrei tanto che lo foste anche voi. 

P.s.

5 commenti: