Oggi tira vento, una tramontana tesa e asciutta, che affila
i profili e secca la bocca e i palmi delle mani, e alza polvere, che ieri era
fango, e sembra che finalmente ci faccia respirare tutti, portandosi via la
cappa pesante di umido, pioggia e pensieri tetri dei giorni passati.
Vi giuro che descrivere quello che abbiamo passato è
difficile, e io posso pure permettermi il lusso di farlo senza avere avuto
danni gravi, né a casa né sul posto di lavoro.
Ma il dolore, la rabbia e soprattutto osservare attoniti la
devastazione a non più di 3 anni dall’ultima volta, sono qualcosa che si
respirano, anche solo passando davanti ai negozi sventrati, alle strade
allagate, alle vite distrutte di tante persone.
Era un venerdì, mi stavo vestendo alle 7 del mattino per andare
al lavoro in treno, pioveva ininterrottamente da 3 giorni, non avrei preso la
moto.
Il bip bip insistente di whatsapp mi ha fatto guardare il
telefono a quell’ora insolita; era un collega che, come me, abita nel ponente
genovese.
“Com’è lì la situazione? Tu vai a lavorare?”
“Di che parli?”
“Accendi la tv”
Accendo su un canale locale, e giuro che il primo pensiero è
stato “ma perché stanno facendo uno speciale sull’alluvione del 2011?”
Per poi realizzare che non era il 2011. Era successo di
nuovo.
Quasi lo stesso giorno, lo stesso fiume, le stesse zone, gli
stessi disastri.
Solo l’ora era diversa, ed è quello che forse ci ha salvati
da una strage.
Il nostro ufficio è al quinto piano, ma è nel cuore della
zona colpita.
Impossibile raggiungerlo quella mattina.
E per tutto il giorno è un continuo postare e inviare foto
del disastro.
Metri di fango ovunque, negozi spazzati via, macchine
accatastate, locali sventrati dalla forza dell’acqua.
Dopo un weekend relativamente tranquillo mi appresto lunedì
mattina ad andare a vedere coi miei occhi quello che è successo nella mia
Genova, e non so se sono pronta.
Scendo dal treno e nemmeno a farlo apposta, I-tunes si mette
a suonare “Dolcenera” di De André.
Lo spettacolo che mi si para davanti è mille volte peggio di
quello che mi ero immaginata dagli stralci di interviste e di foto passate per
i social network.
Io non ho perso niente, ma ho perso tutto, come ciascun
cittadino genovese.
Sono arrivata sotto l’ufficio e non c’era più niente: il
negozio dove di solito compro i vestiti per Davide, il bar dove faccio
colazione, il supermercato dove faccio la spesa ogni giorno, quel negozietto
che ha un sacco di robette carine ma costosissime che mi limito a guardare da
fuori, il negozio di surgelati, la drogheria dove compro le caramelle, i cinesi
che mi stavano sulle balle ma dove ho preso un sacco di stupidate per le feste
di compleanno…. Niente.
Tutto mangiato dal fango.
Ho provato a fare qualche foto ma vi giuro che mi si
spezzava il cuore e mi sentivo un’idiota a girare con le mie galoche pulite in
mezzo a quelle facce stravolte dalla stanchezza, dalla paura, dal dolore.
Di questi giorni mi rimarranno le facce incredule e
stravolte dei commercianti, l’odore di fango nelle strade, le immagini della
discarica a cielo aperto che è diventato il piazzale della foce, con montagne
di auto e di detriti, il rumore incessante dei mezzi di soccorso e quello delle
pompe idrauliche per aspirare acqua e dei compressori per ripulire i negozi.
Dalla finestra ho visto container pieni di abiti infangati,
ho visto arrivare i mezzi dell’esercito e della protezione civile, e sciami di
ragazzi meravigliosi, che qui abbiamo soprannominato “Angeli del Fango”, che
con un entusiasmo disarmante hanno aiutato tutti questi negozianti ad alzarsi
in piedi.
Uscire in pausa e vedere questi sorrisi in mezzo alle
macerie, al fango, all’acqua, dava una sensazione straniante, di euforia ed
entusiasmo, come se ognuno di loro, e di riflesso anche noi, si sentisse
davvero partecipe di una rinascita.
Credo che in tanti abbiamo riversato su questi ragazzi una
sorta di aspettativa e di speranza, come se potessero inconsciamente
rappresentare quel futuro che quotidianamente ci stanno togliendo con ogni
mezzo, e che loro hanno contribuito a restituire ai commercianti della zona.
Ragazzi e ragazze, dai 12 anni in su, coperti di fango fino
alle orecchie, capaci di ridere e scherzare, e “far nascere i fior” dall’ormai
proverbiale letame.
Accolti dai commercianti scampati all’alluvione con affetto,
coperti metaforicamente d’oro (o meglio di acqua, panini, polli allo spiedo e
viveri vari…) per il lavoro stupendo che stavano facendo.
Grazie anche a loro nel giro di 10 giorni quasi pareva non fosse
successo nulla.
Molti esercizi stanno già riaprendo, altri invece non
apriranno mai più.
In molti vorrebbero ribattezzare la nostra via “Via Angeli
del Fango”.
Un piccolo tributo alla buona volontà e alla solidarietà che
questi ragazzi hanno dimostrato, in maniera spassionata e senza chiedere nulla
in cambio.
Tutti i negozi hanno appesi cartelli di ringraziamento ai
ragazzi, ma quanta rabbia in quell’”Ancora una volta, non c’è fango che tenga”.
Un “ancora una volta” così sbagliato, così fuori posto.
Perché ancora una volta le istituzioni non c’erano, i fondi
non c’erano e almeno si è avuta la decenza di non chiedere quell’euro via SMS
che aveva creato tanta polemica dopo il terremoto dell’Aquila.
E ancora una volta “La Superba si rialza da sola”dalla melma
in cui era caduta a causa di altri. E lo ha fatto sapendo di poter contare solo
sulle proprie forze.
Ancora una volta ci troviamo a fare i conti con la natura, e
basta guardare questa foto per capire come tutto questo sia potuto succedere.
E ancora una volta mi sono resa conto di quando stiamo
vivendo male, in nome del dio denaro, icnuranti della nostra salute, del nostro
futuro, del benessere dell’ambiente in cui viviamo, come se fosse completamente
scollegato da quello che siamo e da quello che diventeranno i nostri figli.
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