E sfoggio un po’ di erudizione, che male non fa mai.
Del resto una laurea in Conservazione dei Beni Culturali in
saccoccia ce l’ho.
Eccheccazzo.
Peccato che sia lì appesa ed incorniciata con amore da mia
mamma, e serva solo a coprire una crepa nel muro.
Ma non sono qui per parlare di questo.
Bensì del nuovo film del bell’omo dei giorni nostri, dicasi
George Clooney.
L’avete visto qualche sera fa da Fazio? Con Matt Demon e
Jean Dejardin (vogliamo parlarne? Quanto è figo? Chiusa parentesi), a
presentare quello che diventerà il caso “americanata” della stagione: “The
Monuments Man”.
Che tra l’altro a me Clooney piace un sacco come regista.
Certo lo vedrei sempre meglio aggirarsi nella mia cucina con
solo indosso un grembiulino a prepararmi Whatelse, ma non divaghiamo.
Sono sicura che il film di per sé sarà bellissimo, e la
storia è senz’altro interessante.
Ma qui oso dirlo: odio questa spocchia americana del venirci
a insegnare la NOSTRA storia.
Perché è inutile nasconderlo ma gli americani ce l’hanno nel
DNA ‘sta cosa de “il mondo èèèmmmmiiiooo”.
Ce l’hanno nonostante l’edificio più vecchio di New York
abbia 150 anni, nonostante siano il nuovo mondo, nonostante loro stessero a
spaccare noci di cocco a testate mentre Michelangelo dipingeva la Cappella
Sistina. (un po’ di sano qualunquismo è liberatorio di tanto in tanto!)
Hanno recuperato per carità, ma non mancano occasione per
non farlo notare.
Soprattutto a noi italiani.
Questo mito della “Grande Bellezza” italiana, tanto
celebrata in questi giorni sulla scia del bellissimo film di Sorrentino (tanto
da diventare persino il tema del Sanremo più soporifero degli ultimi 50 anni) è
quello che ci rende così orgogliosi e frustati allo stesso tempo quando andiamo
all’estero.
Ancor più a chi, come me, ha fatto di questa materia oggetti
di studi e di passione.
Proprio in questi giorni in cui, bufala o no, la storia
dell’arte sta piano piano scomparendo dai piani di studio scolastici, in cui
Pompei cade a pezzi e chiamiamo i tedeschi per ricostruirla, e gli inglesi ci
fanno una super mostra a Londra che ha registrato il tutto esaurito nel giro di
un mese.
E noi che siamo intrisi di tutta questa roba, che la storia,
l’arte e la cultura ce l’abbiamo intorno ovunque quando camminiamo, che siamo
cresciuti a pane e Dante Alighieri, le nostre meraviglie le schifiamo, con
l’alterigia che si riserva alle cose troppo scontate.
Per avere un’idea di come gli americani considerino le
bellezze artistiche italiane basta guardare quel polpettone con Julia Roberts
che è “Mangia, prega, ama”.
E naturalmente leggere Dan Brown.
Che ha fatto i miliardi scrivendo (male, malissimo), di cose
che per noi sono… non riesco nemmeno a dire normali. Sono semplicemente lì: ci
sono, ci saranno e ci sono sempre state.
E la stessa cosa sta succedendo con questi “Monuments Man”.
Sulla scia di questo evento Hollywoodiano, lo scrittore del
libro da cui è stato tratto sta diventando una specie di munifico promotore
della causa dei soldati/esperti d’arte che durante la seconda guerra mondiale
salvarono tante opere d’arte dalle mani dei nazisti (ha persino creato una
Fondazione per questo, non mancherò di scrivergli!); e George Clooney, d’altro
canto, l’eroe dei nostri giorni per aver riportato all’onore delle cronache il
coraggio e il sacrificio dei suddetti soldati, ovviamente americani.
Sempre con quell’atteggiamento lì: se il Ponte Vecchio non
ve l’abbiamo tirato giù dovete solo dire grazie a NOI, ok?
Eh già, perché noi poveri beceri italiani non sappiamo fare
niente senza voi americani.
E meno male che ci siete voi americani ad insegnarci la
nostra storia dell’arte.
Come Dan Brown, che non sa distinguere un capitello ionico
da uno corinzio. (cit.)
E che sproloquia di storia delle religioni, non sapendo che
il pubblico italiano, nonostante tutto, è un pelino più preparato di quello
americano.
Tanto che nelle edizioni più recenti de “Il codice da Vinci”
ha dovuto eliminare l’incriminata pagina 9, di introduzione, in cui dichiarava:
“Tutte le descrizioni di opere d’arte e architettoniche, di documenti e
rituali segreti contenute in questo romanzo rispecchiano la realtà”.
Forse perché il pubblico italiano l’ha sbugiardato più di
una volta.
O semplicemente perché le infinite digressioni in cui Brown
si perde per dare sfoggio di erudizione, per noi italiani sono talmente
lapalissiane da diventare persino noiose.
Che bisogno c’è, per fare un esempio, di spiegarmi che il
termine francese che sta per toro,
“taureau” deriva dal latino “Taurus”? Un americano ha bisogno di questa
spiegazione; noi il latino lo studiamo (o meglio studiavamo, oggi non so) alle
medie.
Il latino è la nostra lingua.
E avrei un’infinità di esempi simili, ma un giorno aprirò un
post solo dedicato a Dan Brown.
Lo stesso dicasi per l’eroico Robert M. Edsel, lo
scrittore del libro da cui è tratto il film, che diventa il paladino dei nostri
tempi, ignorando forse che durante la seconda guerra mondiale, tutti i
soprintendenti, di tutte le città d’arte italiane, si armarono di inventiva e coraggio per proteggere il più
possibile le nostre meraviglie artistiche.
Non so cosa successe nelle altre città, ma so cosa successe
a Genova perché ho passato un anno negli archivi della Soprintendenza per
studiare cosa accadde in quegli anni drammatici.
Per imparare che anche noi abbiamo i nostri Frank Stokes, James Granger e Jean-Claude Clermont,
solo che hanno nomi molto meno “cool”, Ceschi, Morassi, Orlando, ma erano
animati dallo stesso fuoco e dalla stessa urgenza: proteggere opere d’arte
uniche e antiche di secoli, costretti dalle circostanze ad un drammatico
“triage”, inventandosi ricoveri dislocati in tutta Italia (pensate che da
Genova molte opere furono dislocate nelle Isole del lago Maggiore), per
sottrarre le opere d’arte alle avide mani dei nazisti; comprese tra l’altro
numerose collezioni appartenenti a famiglia di origine ebrea.
Solo che l’italian-style è sempre quello di ignorare i
nostri talenti, mentre gli americani ne stanno facendo un colossal
hollywoodiano che incasserà milioni.
Poi la cultura non paga, dice.
Non fraintendetemi, non ho niente contro gli americani e
smanio di fare un viaggio negli States prima o poi nella mia vita.
Ma questa spocchia… dio come mi da sui nervi.
Bene, finita la lezioncina di storia “de noiatri”, la
conclusione amara è sempre quella.
La consapevolezza di vivere in un paese meraviglioso, unico
al mondo. E in una città, la mia, meravigliosa e unica al mondo (una delle
tante in Italia, e una delle meno valorizzate).
E non essere in grado di sfruttarne le risorse, e piegarci
ad accettare lezioncine da saccenti professori di Harvard o registi di
Hollywood che ci ricordano ad ogni momento. “Ehilà, voi siete questo, ma ad
arricchirci siamo sempre noi! Congratulations!”.
E avere il coraggio un giorno, di spostare quel quadro che
incornicia la mia laurea, e mostrare quella crepa come il simbolo dell’Italia
che siamo: bella e imperfetta, che non merita di essere nascosta, mai.
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