Sono processi lunghi, che richiedono tempo, ma di cui ti
rendi conto di botto, per colpa di un piccolo, insignificante evento.
Come quando firmi il tuo primo mutuo e ti ritrovi
catapultato all’improvviso nella vita adulta.
O quando tuo figlio arriva a schiacciare da solo il secondo
piano dell’ascensore e realizzi quanto sia cresciuto.
O come quando vedi tuo padre frugarsi le tasche confuso,
convinto di avere messo gli occhiali proprio lì, senza ricordarsi dove sono
realmente.
E ti rendi conto all’improvviso che è un vecchio.
E tu sei lì, sulla linea di confine. Troppo giovane per
rassegnarti a prenderti cura di lui, troppo figlio per cominciare a sentirti
genitore, troppo spensierato per sentirti inchiodato alle tue responsabilità di
persona adulta.
La sensazione è quella del pugile all’angolo, che non riesce
a sfuggire alla gragnola di colpi della vita, e incassa senza schivare, facendo
del proprio meglio per limitare i danni.
In questa società dove non si muore, non si invecchia e non
si cresce, la mia generazione più che mai si trova relegata nel ruolo di un
eterno Peter Pan, e la sensazione di straniamento improvvisa di fronte alla
vita che scorre e al tempo che passa, colpisce e smarrisce, tutto in una volta.
Intravedere quello che sarà da qui a pochi anni, atterrisce.
Chiunque abbia curato e assistito un anziano in vita sua sa
di cosa sto parlando.
Oggi non si muore più, ma invecchiare con dignità resta un
compito arduo, assegnato a terzi, badanti, figlie, infermiere, per lo più
donne, non ho usato il femminile a caso.
Perché le donne sembrano naturalmente predisposte ad
accudire, ad assumersi quel ruolo a parti inverse, di madri, di figlie, e poi
di madri di nuovo, per i propri genitori.
Spetta a loro sobbarcarsi lo scandire lento delle giornate
sempre uguali, la spesa al mattino, preparare il pranzo, inventarsi qualcosa
per passare un pomeriggio senza orizzonti – le prime ore dopopranzo sono le più
lunghe della giornata – fino alla sera; cominciare a preparare cena alle sei,
come in ospedale, per riempire il vuoto, darsi uno scopo, e cominciare presto
le procedure del sonno - la notte spesso è più lunga del giorno, e la
preparazione di un vecchio molto più impegnativa di quella di un neonato.
La conta delle medicine – mezza pastiglia, cinque gocce – e
la burocrazia elefantiaca per prenotare una visita, un esame, rubando tempo al
lavoro, alla famiglia, a se stesse.
Ci si consola spesso pensando che l’unica alternativa al non
invecchiare è morire giovani, ma non basta. Non basta nemmeno pensare che è
naturale e fisiologico sopravvivere ai propri genitori, ma è difficile
arrendersi a questo gioco di ruoli, alla sfrontatezza con cui la natura ci
avvisa: la prossima sarai tu.
E con quale spietata naturalezza le parti si invertono, e
non lasciano scampo, le azioni guidate dal senso del dovere, dal senso di
colpa, dal senso di appartenenza.
Difficile ammettere che la cura di un vecchio non si fa per
amore: si fa perché si deve, perché quel corpo che ora quasi repelle un tempo
ha curato il tuo corpo bambino con gli stessi gesti, guidati allora dall’amore.
Sembra impossibile che un tempo i vostri corpi si
attorcigliassero sott’acqua, al mare, insieme alla paura e all’eccitazione per
i cavalloni, si addormentassero appiccicati nelle notti invernali, i piedi
gelati, le unghie dei piedi a graffiare polpacci, si sciogliessero in abbracci
consolatori dopo una brutta caduta o dopo un litigio.
Passa il tempo, si diventa adolescenti e poi adulti, gli
abbracci si fanno radi e goffi, e in vecchiaia diventano un’elemosina che non
si riesce a concedere.
Quel corpo ossuto e rigido è difficile da maneggiare, da
avvicinare, da accarezzare.
L’indulgenza per i ritmi fisiologici del corpo è riservata
ai bambini – la pupù, la pipì d’angelo; tutto questo nei vecchi repelle.
Repelle il pannolone prima di andare a dormire, l’odore di
pomata per scongiurare le piaghe da decubito, e quello asettico, da ospedale,
di alcool e disinfettante misto all’urina stantia.
Infastidiscono le frasi ridondanti “guarda come mi sono
ridotto”, “domattina controlla se sono morto” da cui traspare la rabbia per la
vita, a cui ci si attacca con le unghie e coi denti, perché si percepisce
quanto in fretta stia scivolando via.
“Ho paura di non riuscire a morire”, era una delle frasi più
ricorrenti di mia nonna.
Perché morire è difficile, più di nascere, perché nella
morte non c’è nessuna empatia, nessun affetto, nessuna compassione.
Nella morte si è soli, niente di più vero e spietato.
La morte di un vecchio ci mette di fronte a quello che
saremo in maniera crudele, netta, senza fronzoli. Ci fa odiare chi abbiamo
davanti perché ci ricorda ciò che saremo, e ci costringere a fare i conti con
la nostra caducità prima del tempo.
Viviamo come se non dovessimo morire mai, ci appigliamo ai
figli come ad una fortezza in cui è rinchiuso il nostro futuro prossimo,
recriminando ai vecchi di essere vecchi e di sbattercelo in faccia.
Per questo quando la morte arriva sul serio non siamo mai
abbastanza preparati.
All’improvviso quel fagotto d’ossa e di astio, gettato su
una poltrona come un cencio sporco, inutile, non c’è più.
Il vuoto è improvviso, il senso di libertà riacquisita dà
alla testa.
Inutili ora ci sentiamo noi, con quelle giornate da riempire,
coi sensi di colpa finalmente chetati, e la consapevolezza che il relitto che
abbiamo lasciato andare è solo corpo.
L’assenza la provavamo già prima; la mancanza della figura
energica che fu, che niente ha a che vedere con quel mucchio di stracci, abbandonato
in un angolo, aspettando che la vita passi e si consumi.
Meglio rifugiarci nel ricordo di mani che sfogliavano avide
libri e riviste, intrecciavano maglioni ai ferri o afferravano falci e zappe
nella cura dell’orto, invece di quelle tremanti che stentavano ad infilare un
bottone nell’asola o a portare un cucchiaio alla bocca.
E nel pensiero immortale. Quando sarai grande, ti insegnerò
a guidare, detto ad un nipote bambino.
Ignorando volutamente che certi traguardi non sarà possibile
tagliarli, e il male che fa.
Vivendo come se non dovessimo invecchiare, né morire.
Mai.
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