Di mia
nonna ricordo le mani
nodose, che si abbattevano inclementi sulla mia bocca ogni volta che rispondevo
male.
E si infilavano ruvide e asciutte
tra collo e canottiera, per sentire se ero sudata.
Aveva questa fobia mia nonna, e
io giocavo a nascondino coi miei amici col terrore di vederla sbucare
all’improvviso, e una volta constatato il livello di inzuppamento della
canottiera della salute che mi costringeva ad indossare anche in pieno luglio,
agguantarmi per un braccio e trascinarmi fino a casa, dove mi cambiava e mi
avvolgeva in una nuvola di borotalco.
Le stesse mani che avvolgevano
con perizia un tortellino le due volte l’anno che impastava, sapevano stringere
con forza le mani del medico durante la visita per ottenere l’accompagnamento,
come a dimostrare che lei non poteva e non voleva invecchiare.
Passavamo insieme intere estati
nel suo paese natale, immerso nella canicola della campagna vercellese.
Le sere in giro in bicicletta,
cento volte lo stesso giro, passando davanti a lei che spettegolava con le sue
amiche su una panchina, tenendomi d’occhio come solo le comari di paese sanno
fare.
Pedalare era l’unico modo di non
farsi mangiare dalle zanzare che abitavano in sciami quella pianura divisa in
rettangoli perfetti dalle risaie, che durante la primavera raddoppiavano il
mondo in specchi d’acqua immobili, restituendo immagini perfette che mio padre
amava fotografare, giocando ad indovinare quale sarebbe stato il verso esatto
della diapositiva.
A settembre si trebbiava, e
l’odore del bilon, la pellicina del riso, bruciata, è uno degli odori della mia
infanzia.
Andavamo a pesca di rane, che lei
uccideva con crudeltà per preparare deliziose frittate, che solo a pensarci
ora, da quasi vegetariana, svengo al pensiero.
Dopo pranzo andavo sempre al bar
a comprarle un fragolino, tenendomi il resto in monetine come un piccolo
tesoro, che mi dava accesso a rotelle di liquirizia, ghiaccioli, partite a
calcio balilla e due canzoni nel juke box.
La notte dormivamo nello stesso
letto, la stanza intrisa dell’odore degli zampironi; regolarmente nel pieno del
sonno mi svegliava per chiedermi l’ora, avendo perso il rintocco del campanile,
che all’epoca suonava ogni quarto d’ora.
Al mare passava ore a riempire
bottiglie di plastica vuote di pinoli, che in inverno liberava dal guscio dopo
pranzo; il clic dello schiaccianoci accompagnava i miei pomeriggi chini sulle
versioni di latino.
In inverno restava con noi
durante il giorno, ci accompagnava a scuola, e attendeva l’ora di pranzo in cui
tutti rincasavamo.
L’ultimo ad arrivare era mio
padre, e una volta preparato il caffè, spesso salato anziché zuccherato,
esordiva col solito “io vado a casa mia”, difendendo con le unghie e coi denti
la propria indipendenza e la propria privacy.
Aveva occhi blu, che hanno sprizzato
gioia di vivere fino all’ultimo dei suoi giorni.
Gli stessi occhi che ha ereditato
mia madre ma, con suo grande disappunto, nessuno di noi figli e nipoti.
Mi aspetto di vedere spuntare
fuori questo gene da qualche pronipote, magari mescolato a quelli africani di
Pu, che meraviglia.
Ogni tanto si soffermava sui
ricordi di guerra, il promesso sposo disperso per 4 anni, lei che si reca da
una cartomante per sapere se è ancora vivo, lui che torna a casa, 40 chili con
le scarpe a pezzi, tre giorni dopo la morte della madre.
E le compaesane che andavano coi
tedeschi rasate a zero dopo la liberazione, marchiate per sempre come
traditrici.
Non parlava volentieri di quel
periodo, eppure ogni tanto glielo chiedevo io, insieme alle storie di famiglia,
le cugine Giuanina e Selvaggia che ci facevano tanto ridere, e la sua gemella
nata morta.
Era una professionista delle
polpette, che faceva con l’avanzo di qualsiasi cosa, e del fritto, perché si
sa, da buona piemontese, fritta è buona pure una suola da scarpe.
Passava pomeriggi interi a
sferruzzare a maglia, e durante l’adolescenza ha assecondato ogni mia voglia in
tal senso, dalle borse, agli sciarponi, fino a i manicotti da cui spuntava solo
il pollice che facevano tanto alternative-underground.
Creava pezzi unici che tutte le
mie amiche mi invidiavano, compresi berretti stilosi, che confezionava utilizzando
quattro ferri.
Inutile dirvi che io non ho
ereditato nemmeno un decimo di quel talento.
Mi limitavo ad aiutarla a
avvolgere la lana che riutilizzava disfacendo vecchi maglioni, su un bizzarro
attrezzo di legno coi bracci pieghevoli.
Ne uscivano ampi gomitoli che lei
lavava e stendeva nella vasca da bagno, prima di trasformare un maglione in un
mini abito.
Negli ultimi anni della vecchiaia
il forte abbassamento della vista era stata una delle sue più grosse cause di
sofferenza; aveva la terza elementare ma leggeva il giornale ogni giorno ed era
sempre sul pezzo, dal gossip alla politica estera.
Mi mancano quelle mani nodose che
a stento riuscivano a tenere in braccio mio figlio neonato.
E che mi strofinavano la pancia
quand’ero malata al ritmo di una nenia in piemontese che sembrava il canto
rituale di uno sciamano “zan zan zan, al malaviu il port al san” (non so
scrivere il piemontese, se qualche vercellese vuole correggermi gliene sarei
grata).
E il sapore unico del suo sugo,
che mangiavo condendo un uovo fritto.
A volte mi pento dei mancati
abbracci che non ho saputo darle quando forse ne aveva più bisogno.
E da quando è morta sogno sempre,
ciclicamente che sia tornata in vita, nonostante la sua morte sia stata un
immenso e colpevole sollievo per tutti. Lei in primis.
Il peso dei vecchi è un peso
difficile da sopportare, e ancora più difficile da confessare.
Pu la ricorda appena, la nonna
vecchina che la faceva sempre giocare.
Io ho voluto dedicarle il mio
blog, perché è anche grazie a lei se ho cominciato a scrivere, appuntandomi la
storia della sua vita
Allegro era il suo cognome, nomen
omen, dicevano i latini.
Eles il suo nome, un nome raro e
inusuale, che mi inorgogliva, perché nessuno aveva una nonna con un nome così.
Il mio carattere solare lo devo
in parte anche a lei, sempre in piedi di fronte alle avversità della vita, a
cui si è ancorata con le unghie e coi denti fino all’ultimo giorno, se pensate
che è andata a morire nel suo letto con le sue gambe.
Il letto dove ora dorme Pu, e
questa continuità mi da pace verso il ciclo ineluttabile della vita.