Amo la mia città, Superba e altera, adagiata sulle colline
come un’anziana signora, una di quelle che vedi prendere il tè da Mangini, con
la puzza sotto il naso e il foulard di seta in fantasia cachemire stretto al
collo, e la borsa stretta in grembo.
Odio la mia città, presuntuosa e arrogante, che non ha
bisogno degli altri, che ti soffoca col suo clima di rabbia e depressione, e
quei vicoli troppo stretti per camminare, e quelle montagne dietro e il mare
davanti che non fanno respirare.
Amo la mia città, aperta e accogliente, amo il suo Ghetto
colorato, patria degli “ultimi” di Don Gallo e De André, amo le sue prostitute,
i trans, le donne africane in pagnes colorati e le loro bancarelle, i vicoli
sporchi e zeppi di odori, dove so sentirmi a casa come in nessun posto al
mondo.
Amo la miscellanea di lingue, dialetti, culture, piatti
cucinati e tradizioni mescolate; amo i genovesi “sarveghi”, che prima di
lasciarsi andare ti annusano, ti scrutano, ma quando aprono le braccia lo fanno
con tutto il cuore e un pezzetto di anima.